Il giorno 21 marzo papa Francesco arriva a Napoli. Plana
dall’alto e atterra a Scampia, come una colomba bianca pronta a portare il suo
ramoscello d’ulivo. E lo va a portare proprio in quella terra di nessuno (o
meglio, della camorra) dove spaccio di droga e violenza sono le dure realtà con
cui tante persone - la cui sola sfortuna è quella di essere nate nel posto
sbagliato – devono convivere. Ma adesso è arrivato il papa: il papa è un
simbolo forte, profondo; una sua parola può riempire pagine e pagine di
giornali e ora ha l’occasione di lanciare il suo urlo gentile contro la
criminalità organizzata. Ho ancora in mente la rabbia e la fermezza con cui
Giovanni Paolo II lanciò un anatema carico di sdegno contro i mafiosi in un
ormai famoso 9 maggio 1993 dalla valle dei Templi di Agrigento. “La mafia non
può calpestare questo diritto santissimo di Dio” (quello di non uccidere),
tuonava il polacco vestito di bianco. Parlava all’indomani dei due attentati
che hanno sconvolto l’Italia e intanto dimenava il pugno, accigliato, e chiamava
i colpevoli con il loro nome: mafiosi. “Lo dico ai responsabili, convertitevi!
Una volta verrà il giudizio di Dio!”, da un lato brandiva il crocifisso,
dall’altro un dito puntato – come quello che fra Cristoforo puntò contro Don
Rodrigo – e da dietro il vescovo che lo accompagnava sul palco pareva quasi
sbiancare, forse per l’audacia, forse la paura. Ce l’ho in mente – come dicevo
– la scena, e spero tanto di rivederla adesso, con questo nuovo vicario di
Cristo.
“La corruzione spuzza”, dirà il vicario.
Nel duomo frattanto il sangue magico di San Gennaro si
scioglie in parte. E’ un miracolo. Fuori dalla chiesa, un giornalista del tg di
“TV 2000” (edizione delle 18:30 del 21 marzo) intervista un passante
chiedendogli un’opinione sul papa: “mi auguro che la venuta del santo padre a
Napoli ci toglie un po’ di disoccupazione” dice infatti al microfono, avendo a quanto
pare le idee più lucide e chiare rispetto alla stampa (e alla Chiesa stessa,
direi) “chist’ è u miraculo ca vuless’ ‘a San Gennaro. I giovani stanno in
mezzo alla strada”. Evidentemente la risposta non convince il giornalista che
incalza con “c’è stata anche la liquefazione del sangue di San Gennaro. C’è
stata un’esplosione quasi come un goal della squadra…”. Il passante, quasi
accorgendosi del patetismo di una tale affermazione, interviene e precisa: “… a
metà, non tutto. Tra tutti i papi che sono venuti, la metà l’ha avuto
Francesco, e sono contento. Però la disoccupazione dei nostri figli è molto
grave”. Grande lezione di giornalismo e di vita. Imparassero, l’intervistatore
e il papa stesso, da questo signore: non serve ciancicare di bontà e carità a
platee da intrattenere un quarto d’ora in una mondanità salottiera per far sì
che la Chiesa faccia davvero il suo mestiere. Bisogna che essa scenda nelle
strade e mastichi la polvere degli ultimi e dei disgraziati, che a Napoli
abbondano e chiedono aiuto. Bisogna che la Chiesa impari da Don Giuseppe Diana,
che nelle sue omelie indicava la colpa della camorra – a sua volta nata dalla
colpevole assenza dello Stato – e per questo ammazzato da cinque proiettili
nella sua stessa sacrestia poco prima di dire messa. Questa è la Chiesa di cui
Napoli ha disperato bisogno, invece stavolta si è vista una Chiesa fatta di
siparietti, di superficialità, di astuto intrattenimento, di pizza, incenso e
mandolino. In piena coscienza, mi sento di dire con assoluta serenità che non
bisogna prendere esempio da questo modo di intendere la religione: è il
peggiore, è quello ipocrita, quello che tace e che acconsente. Che dice e non
dice, vestito di nuovo e svestito di vero. Che magari condanna le pistole, ma
non si mette mai nella traiettoria tra queste e le loro vittime.
E’ volata sino a Scampia, la colomba bianca. E dal lungomare
Caracciolo è volata via. Ha sbattuto un po’ le ali, fatto cadere qualche piuma
e poi ha spiccato il volo. La Chiesa che è arrivata a Napoli si è adeguata ai
suoi costumi: invece di concludere la predica con l’ostia e il vino, ha
preferito finirla con tarallucci e vino.