
Tanto più la pratica funeraria si sviluppa e articola, allo stesso
modo si espande la coscienza civile di quella società: nel momento in
cui si creano tombe e monumenti, quella civiltà ha preso coscienza del
valore del ricordo; quando poi si stabilisce che i cimiteri vanno
disposti fuori dalle mura di una città, la civiltà è sufficientemente
matura per capire che la morte è un aspetto che va gestito anche da un
punto di vista medico e igienico (per caso – ma forse neanche tanto –
questi due aspetti trovano un trait d’union nell’editto di Saint Cloud).
Se pensiamo al passato e al suo rapporto con il mondo dei morti
probabilmente la prima immagine che viene in mente è l’Egitto, patria
delle tombe più grandi mai create, ovvero le piramidi. Il tutto perché
in quella civiltà la morte era considerata l’interruzione della vita
terrena ma non del vivere in sé, e dunque occorreva attrezzarsi con
tutto il necessario per poter condurre una vita adeguatamente dignitosa
nell’aldilà. Almeno per quanto riguardava i faraoni, che arrivavano a
farsi seppellire con schiavi vivi pur di assicurarsi una servitù anche
nell’altro mondo. E se parliamo di grandezza in ambito funerario non si
può non pensare al re della Caria (antica regione dell’attuale Turchia),
Mausolo, la cui tomba aveva una magnificenza tale da dare il nome per
indicare qualsiasi monumento particolarmente grande, vale a dire il
mausoleo. Ai romani, da sempre pratici e funzionali, si deve
l’invenzione dei “colombari”, cioè quelle nicchiette funerarie che hanno
principalmente lo scopo di riunire più tombe (magari di una stessa
famiglia) all’interno del minor spazio possibile.
Il dialogo con la morte è attivo nel passato più di quanto si
immagini, il che non deve stupire perché l’uomo antico aveva
un’aspettativa di vita relativamente bassa e una difesa medica dalle
malattie di gran lunga inferiore alla nostra (compensata però da un
sistema immunitario probabilmente migliore di quello di cui disponiamo).
Ma oltre a saperla gestire materialmente, gli antichi maturarono anche
una coscienza filosofica della morte. E, come tante altre cose del
passato, è talmente attuale da meritare qualche accenno.
Ad esempio, un aspetto senza dubbio affascinante è la morte intesa
come punto di passaggio, che da esistenziale (vita - non vita) diviene
geografico e fisico, individuando letteralmente un confine che separa
due stadi dell’essere. E questo confine è variabile, a volte è una
striscia di terra, una semplice soglia di pochi centimetri, altre volte
si allarga sino a diventare fiume, e altre ancora addirittura diventa
vuoto, spazio imprecisato, aria, nulla.
Quando è rappresentato da una linea (che ricorda molto i solchi con i
quali un tempo venivano tracciati i confini delle città), il limen
che separa vita e morte è quasi un pretesto per evidenziare la
fuggevolezza dell’attimo, la rapidità e facilità con cui si può passare
da una condizione all’altra nel giro di pochi istanti. È il concetto che
si trova alla base del successivo (in ordine cronologico) “del doman
non v’è certezza”, ed è efficacemente rappresentato da un bassorilievo
che si trova al museo archeologico nazionale di Napoli, recante le
figure di Orfeo, Euridice ed Hermes prese nel momento in cui il mitico
cantore si volta a guardare il suo amore Euridice prima che lei fosse
uscita dall’Ade.
La scena è armonicamente riempita da tre figure verticali concatenate tra loro attraverso l’intreccio di mani, strutturato in una spinta diagonale che va dal basso verso l’alto. Tale dettaglio non nasce per caso; difatti l’artista rappresenta in toto il concetto di anabasi (dal greco, “risalita”), contrapposto alla precedente “catabasi”, vale a dire la discesa negli inferi, che Orfeo ha dovuto affrontare. La disposizione stessa delle figure sottolinea ulteriormente la cosa: abbiamo infatti sul lato sinistro (e cioè quello vicino all’Ade) Hermes nella sua funzione prettamente infera di psicopompo, mentre dal lato opposto il vivente Orfeo ormai già uscito dal mondo dei morti.
La scena è armonicamente riempita da tre figure verticali concatenate tra loro attraverso l’intreccio di mani, strutturato in una spinta diagonale che va dal basso verso l’alto. Tale dettaglio non nasce per caso; difatti l’artista rappresenta in toto il concetto di anabasi (dal greco, “risalita”), contrapposto alla precedente “catabasi”, vale a dire la discesa negli inferi, che Orfeo ha dovuto affrontare. La disposizione stessa delle figure sottolinea ulteriormente la cosa: abbiamo infatti sul lato sinistro (e cioè quello vicino all’Ade) Hermes nella sua funzione prettamente infera di psicopompo, mentre dal lato opposto il vivente Orfeo ormai già uscito dal mondo dei morti.
Tra i due, disposta (momentaneamente) su un limen di vita e
morte, Euridice, non a caso graficamente contesa tra la rigida – eppure
commossa – restrizione della mano di Hermes e la tenera carezza di
quella di Orfeo. Ogni sentimento è eternato nell’istante catturato dalla
scena: Orfeo, quasi incredulo, viene ripreso nel momento in cui sta
iniziando a capire il suo errore; Euridice triste ma allo stesso momento
grata verso il suo amato che ha attraversato il mondo dei morti pur di
riaverla; Hermes, inflessibile nel suo ruolo ma tuttavia silenziosamente
partecipe al gesto d’amore, così come al dramma imminente che Orfeo ha
appena intuito. Tutta l’azione è sospesa, attendendo l’ultimo sospiro
dei due amanti non ancora esalato. Un’apparente quiete prima della
tempesta, un momento vissuto tutto intorno a uno spazio ristretto, un
solco nel terreno che divide di poco il mondo degli uomini e gli inferi
(ricordando che quando si parla di “inferi” non stiamo parlando
dell’inferno).
Ma tale solco nel terreno si può allargare sino a diventare il letto
di un fiume. E in questo caso prende il nome di Lete, principale corso
d’acqua che nella mitologia classica separa i due mondi anche se ne sono
presenti altri (Cocito, Stige, Flegetonte e quello più dantesco,
Acheronte). Perché infatti in questo caso il confine non serve tanto a
separare un luogo dall’altro quanto a dividere due differenti condizioni
esistenziali: quella di chi osserva il presente e ha memoria del
passato (i vivi) e quella di chi percepisce il futuro ma non serba
ricordo di ciò che si è lasciato dietro (i morti). Il ruolo del Lete è
infatti quello di cancellare ogni ricordo della vita terrena a quanti
sono pervenuti alla morte. È quindi un ruolo catartico quello che
riveste, una purgazione mentale dai residui della vita. Non a caso
ritroveremo il Lete nel Purgatori di Dante, separando il monte dal
paradiso terrestre.
Ma l’immaginario classico è capace di andare oltre riuscendo a
esprimere una riflessione filosofica un passo prima di giungere a questo
fiume. È il caso mirabilmente rappresentato dall’affresco della
cosiddetta "Tomba del Tuffatore", conservato nel museo
archeologico di Paestum. Nella scena è raffigurato un uomo appena
lanciatosi da un’altura e colto in un istante sospeso su uno specchio
d’acqua nel quale sta per immergersi. La poesia di quest’immagine è un
connubio di opposti: fortissima e delicata, antica e attuale,
spensierata e malinconica. Che cos’è dunque la morte per il committente
di quest’opera? Dov’è il suo ruolo, il suo confine?
Nel vuoto, ovviamente. Nella sospensione, nell’attesa, nella tela
bianca dell’ignoto: il passaggio da un mondo all’altro è un passaggio
che si esaurisce tutto nel gesto di chi sta affrontando questo momento,
non è circoscritto da un luogo o da un segno perché è evidente che la
morte, intesa nella sua natura più profonda e inspiegabile è un mistero
simbolico che non appartiene alla conoscenza umana, un placido ignoto
avvolto in una realtà senza forma o confini. Ma una realtà comunque
incredibilmente serena dove non c’è buio, né scompiglio. Si intravede un
senso di oblio che richiama il Lete di cui sopra, ma è un oblio
piacevole, accettato con il sereno abbandono di chi si sta tuffando alla
ricerca di frescura e libertà.
Il limite smette quindi di essere un confine fisico e diviene aria,
il passaggio non è più un passo ma un’idea. Ed è un’idea decisamente
positiva perché “al di là” di questo tuffo nel vuoto un qualcosa c’è:
c’è acqua e c’è un albero, dunque c’è vita. O esistenza, o fertilità, o
comunque serenità. Questa è una concezione della morte che si lascia
alle spalle le grandi tombe dei faraoni e gli assilli pratici dei
romani. Anzi si lascia alle spalle ogni necessità che lega il defunto
alla vita, perché tutto è già stato fatto, o detto. Il tempo sul mondo è
finito ora tocca pensare ad altro, e conviene pensarlo con il giusto
rispetto e la giusta dignità.
Come scrisse Totò nella sua “livella”, “…Sti ppagliacciate 'e ffanno
sulo 'e vive: / nuje simmo serie... appartenimmo à morte!" (“Queste
pagliacciate le fanno solo i vivi: noi siamo seri… apparteniamo alla
morte!”).