E’ sempre un piacere (ri)scoprire
libri ed autori del panorama italiano, soprattutto quelli che ci concedono
generosi scorci della nostra storia, perché - è bene ricordarlo – una
rinfrescatina a ciò che eravamo, e da quali orizzonti proveniamo, è sempre
un’ottima medicina.
Diversi sono gli autori ai quali
affidarsi per un tale scopo. Un caso letterario davvero rilevante è Il giorno del giudizio di Salvatore
Satta (1902-1975). Seppur corposo, è un libro incompleto, conclusosi
bruscamente alla fine di una “parte prima” a causa della morte dell’autore. Il
libro, pubblicato postumo, passò inizialmente inosservato per poi ricevere con
le successive ristampe un gran successo di pubblico e critica.
Il testo ha come linea
conduttrice la rievocazione dell’infanzia trascorsa a Nuoro. L’autore racconta
ciò che ha visto e vissuto, narra di come i suoi occhi hanno percepito allora
eventi e persone e di come, anni dopo, essi siano cambiati sotto il suo sguardo
ormai anziano.
Ma l’affascinante libro di Satta non
è una di quelle letture 'emotive', non è acqua che scorre: si avverte
soprattutto la sensazione di sprofondare nella parola.
E in realtà la lettura non è
emotiva perché è il libro stesso a non esserlo. In apparenza può sembrare tale
perché è intriso di un profondo senso del ricordo e di richiami, ma tuttavia
non è nostalgico. Satta è stato molto accurato e completo quando ha stilizzato
il senso del libro nel titolo, metaforizzando il suo ruolo di demiurgo
cristiano. Un Dio che apre le mani e evoca a sé anime e storie non lo fa con
pietà o con nostalgia, ma obbedisce ad un disegno quasi più grande di lui il
cui scopo è fissare ciò che fu vita in una sorta di eternità. E non per monito,
o per farne un esempio, ma semplicemente perché l’eternità (leggi: la
scrittura) è un luogo sufficientemente ampio per ospitare qualsiasi storia si
voglia raccontare.
L’accuratezza verbosa di Satta è
tutta nella sua mente, e risente molto della sua professione giuridica, mentre
invece il suo sentimentalismo (perché è ovvio che il libro ne è pieno) è dato a
grandi manciate quando descrive in maniera quasi manzoniana gli appezzamenti di
terra, le frazioni dei paesi, gli avventori dei bar e soprattutto le ariose case di campagna, quasi
come Guido/Mastroianni fa in “8 e 1/2” di Fellini, che si immerge nella tinozza
della sua infanzia ricercando il lontano e il puro in quelle stanze ampie e
rustiche di casa sua . La coniugazione dei due aspetti (precisione e passione) la
si nota quando nel discorso non disdegna mai di inserire talvolta la
terminologia dialettale, forte del fatto che il sardo è una di quelle lingue
che si svelle dall’italianità etrusca di tanti dialetti e diventa, nella sua
fonetica chiusa ma allo stesso tempo musicale, un suono ancestrale, pregno ma
enigmatico, quasi eleusino.
E' un libro scritto con molta
professionalità: la si vede dal fatto che l’autore riesce a mantenere per
l’intero corpus dell’opera uno stile
indiretto che ha quasi più a che fare con il monologo teatrale piuttosto che
con la narrazione in senso stretto. E’ un’impresa, questa, che non a tutti gli
scrittori riesce e a pochi di essi riesce bene.
Per quanto riguarda la materia
stessa del testo, forse è sbagliato accostarla ad opere quali “Spoon River” di Masters o “Winesburg, Ohio” di Anderson, nonostante
ad una prima impressione l’impianto strutturale che spia le vite di un paesino
sia lo stesso. Ma il punto è proprio questo. Satta non “spia” le vite: le ha
conosciute (al di là del discorso di quanto esse siano vere o false). Ha
parlato con quei volti di cui racconta, oppure ne ha ereditato il racconto
-un’immagine così bonariamente paterna tanto che la si rivede, vivida e vera,
tra le pagine del libro -. L’autore ha percorso quelle vie pietrose, in groppa
alla sua infanzia, e ricorda le ginocchia sbucciate, i giornali informativi che
parlavano di un mondo lontano (per lui nello spazio, per noi nel tempo), di
un’Italia che ancora quasi si meravigliava di ciò che alla fine dei tumulti
della storia moderna si ritrovava ad essere. E tutto questo concede un sapore
profondo a tale monologo interiore: niente e nessuno è visto con un
cannocchiale, ma attraverso le lenti di un magistrato che prepara le indagini
preliminari alla ricerca del suo passato, della sua storia, della sua terra.
E’ sicuramente un libro che da
l’opportunità di accrescere il proprio percorso letterario. Una più che buona
prova di lettura e di scoperta della bibliografia italiana del ‘900. Una
prelibatezza nota a pochi ma che tutti dovrebbero leggere, anche solo per
misurarsi con esso, andando oltre al fatto che può piacere o non piacere, o
possa risultare ostico o meno.
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