Finalmente al Museo Archeologico Nazionale di Napoli si allestisce
una mostra degna del contenitore che la ospita: era ora infatti che uno dei
musei archeologici più importanti al mondo (per mole e valore delle sue
collezioni) ospitasse un evento ben organizzato e meritevole di essere visto,
vale a dire “Pompei e l’Europa. 1748-1943”, iniziato il 26 maggio e che continuerà
fino al 2 novembre. Il titolo descrive il ruolo che la città archeologica per
eccellenza ha avuto nei confronti del mondo intellettuale e artistico in un
determinato lasso di tempo segnato da due date molto significative: la prima
testimonia l’inizio degli scavi da parte dei Borboni che hanno portato alla
luce il sito archeologico più visitato in Italia dopo il Colosseo (dati Mibact
2015), la seconda il bombardamento che ha distrutto parte del suo patrimonio. 195
anni durante i quali la città campana ha regalato migliaia di reperti artistici
e non solo: ha donato storia, architettura, letteratura, religione. Pezzo dopo
pezzo, mattone dopo mattone, strada dopo strada, la città si è spalancata agli
occhi di chissà quante persone, tappa obbligata per il Grand Tour (così si chiamava il viaggio che gli intellettuali e
artisti europei facevano almeno una volta nella vita e che aveva come meta finale
l’Italia, in particolare la Campania, in modo da poterne ammirare l’arte e
impararne i segreti). La mostra mette in rilievo soprattutto questo, e cioè
come l’arte classica si sia travasata nelle parole e nelle pitture di artisti
moderni e contemporanei che hanno attinto da Pompei come se fosse una fonte di
cultura in continuo scorrere e rinnovamento. La città vesuviana era sepolta ma
non è mai morta, ha continuato – una volta venuta alla luce – a muoversi e
brulicare di vita, a emozionare gli animi e riempire gli occhi di passione. Ed
ecco che Goethe ebbe a dire che mai nella Storia una sciagura così grande
avrebbe dato tanta gioia all’umanità, mentre Leopardi guardava, fantasticando,
le case romane emergere dall’oblio del passato. E se poeti e scrittori hanno
fatto la loro parte, i pittori non sono stati da meno: la mostra gode infatti
di un dialogo aperto con i quadri degli artisti che ispirandosi a Pompei
(soprattutto dopo averla vista) hanno eternato ulteriormente la sua fortuna
culturale. La Sala della Meridiana (l’ampio salone che ospita la mostra) dunque
oltre a riempirsi di reperti archeologi si abbellisce di ulteriori tele in
aggiunta a quelle che normalmente già ospita, con risultati decisamente
affascinanti, perché non capita tutti i giorni vedere un’opera di De Chirico
circondata da antichi elmi e schinieri dei gladiatori, oppure le “Bagnanti” di
Picasso fare da pendant ai letti
(originali) sulle quali le professioniste del lupanare svolgevano il loro
mestiere. E ancora George Braques, Paul Klee, Giacinto Gigante e altri ancora
che trasformano in bellezza pittorica la bellezza degli scavi. Ma il discorso
non si limita soltanto all’arte, perché tra i nomi illustri che sono stati
ispirati da Pompei c’è anche quello di Le Corbusier, l’architetto che forse più
di tutti ha segnato lo zeitgeist (ovvero
lo spirito) del Novecento. Vedere come l’eccezionale architettura classica
riesca a nutrire quella contemporanea non fa altro che aggiungere valore al
ruolo e l’importanza di un sito straordinario quale è Pompei, e la mostra mette
bene in evidenza tutto ciò estendendo il paradigma ad altri campi dello scibile
umano. L’unica vera pecca dell’evento è la relativa limitatezza, volendo
intendere che la ricchezza di materiali che il Museo di Napoli possiede potrebbe
ampliare ancora di più la superfice espositiva (non riesco a fare a meno di
pensare – e soffrirne – alle centinaia e centinaia di statue e reperti che
giacciono nel chiuso dei magazzini dato che il materiale esposto all’interno di
tutto il museo corrisponde a circa un terzo di quanto realmente possiede). Ma
questa, come si suol dire, è un’altra storia.
