Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

domenica 17 febbraio 2013

Ignoranti nell'ignoranza


Ho sempre odiato con tutte le mie forze l'uso del dialetto (qualsiasi dialetto d'Italia) come leva local-populista nel tentativo di acquisire bonaria complicità da parte del popolo.
E' un qualcosa che a mio avviso confina con la mafiosità di certi atteggiamente, del tipo "non ti preoccupare di chi sono, cosa ho fatto e cosa voglio fare, tanto parliamo la stessa lingua". E' questa una caratteristica che affonda le sue radici nel "simm' e Napule, paisà" - ma, ribadisco, trova una sua applicazione in tutta l'Italietta - e altro non è che l'anticamera di mali sociali più grandi quali il vittimismo, l'approssimazione, lo zittirsi, il "chiudere un occhio", il tutto crogiolandosi quasi con compiacimento nella colpa più grave che ha, a mio avviso, il popolo italiano quale l'incapacità di autocritica e l'accettazione passiva di uno status quo che non si ha intenzione di cambiare.
Come se non bastasse questo dettaglio - che rimane comunque una mia opinione - c'è chi, marciando su questa strada, inciampa nell'errore grammaticale, divenendo così modello di ignoranza (come se qui in Italia non ne avessimo fin troppi) e stampa manifesti del genere.



L'asino che ha redatto il testo di questo slogan evidentemente ha voluto coniare un nuovo verbo dialettale, il verbo "avencere" (probabilmente una traslitterazione dell'inglese "to avenge", ergo il tutto significherebbe "ora che vendica grande sud). O forse si sarebbe voluto intendere "mo CA vence grande sud", vale a dire "ora che vince grande sud", dato che in napoletano si direbbe "io venc', tu venci, egli vence" mentre un "io avenco" non si è mai sentito.
Cosa si deve pensare di tutto ciò? Senza mezzi termini e senza le noiose scusanti buoniste, si deve solo supporre che chi ha pensato questo manifesto è ignorante due volte: la prima per aver optato per il dialetto in una comunicazione ufficiale, la seconda per non averlo neanche saputo usare. 
Non mi si vengano a fare - per carità - sproloqui finto populisti sul bisogno di comunicare in maniera diretta alle persone, nè tantomeno sul ruolo culturale e storico del dialetto napoletano. Anche perché risponderei che tale ruolo è stato colpito alle spalle tanto più che nel manifesto viene citato un padre di questa lingua quale Eduardo De Filippo ("adda passà 'a nuttata" tratta da "Napoli milionaria"), e appioppare un errore del genere accanto a una citazione così potente equivale a sputare in faccia a tutto il suo lavoro di una vita.
E inoltre, volendo essere pignoli fino in fondo, il modo corretto di scrivere la forma dialettale di "questa" è " 'sta" perché c'è una sorta di caduta delle prime due lettere e quindi tecnicamente andrebbe segnalata con il segno di elisione ( ' , appunto).
Incredibile come nel giro di poche parole si siano potuti fare così tanti errori e così tanti attentati alla civiltà e alla cultura. Mi chiedo con che coraggio e con quale arroganza si possa pretendere di avere un posto nella pubblica amministrazione o peggio ancora al Parlmento. 
E intanto i partiti e le persone ignoranti del nord continueranno a dare dell'ignoranti ai partiti e alle persone del Sud, in questo giochetto politico-sociale che tanto torto non ha ma che non fa altro che testimoniare che in quanto nazione abbiamo abbondantemente perso tutti, su tutti i fronti.
Cerchiamo di imparare e ricordare che se non proprio Europei, siamo Italiani.

venerdì 15 febbraio 2013

Napoli in "Rock!"

Leggi l'articolo sul CittadinoNews




E’ un buon anno per il rock a Napoli. In attesa del grande evento che vedrà Bruce Springsteen in concerto a Piazza Plebiscito il 23 maggio, il Pan (Palazzo delle Arti di Napoli) ospita dal 12 gennaio fino al 24 febbraio la mostra “Rock!”, giunta quest’anno alla sua terza edizione e accompagnata da una fitta rete di eventi musicali e artistici connessi a essa.
Un’esposizione assolutamente gradevole, ben organizzata e allestita, ricca di stimoli e attenzioni, perfino per i più piccoli per i quali – come il manuale della museografia impone – è previsto uno spazio tutto loro dove hanno la possibilità di intrattenersi con attività pittoriche e ludiche. L’invito ad andarci è consigliato e sottointeso, ma che non vi venga in mente di cercare informazioni sul sito ufficiale del museo www.palazzoartinapoli.net perché non la troverete menzionata neanche per sbaglio, una mancanza che ha il suo relativo peso.
Il CittadinoNews ha incontrato i due organizzatori dell’evento, Carmine Aymone e Michelangelo Iossa, che nonostante gli impegni si sono resi disponibili a un’intervista con estrema gentilezza. Hanno appena finito di illustrare la mostra a un gruppo di ragazzi e ora mi concedono il loro tempo.




Complimenti per l’allestimento dell’evento che si è rivelato essere molto interessante e molto ben fatto. Notavo soprattutto, durante la presentazione avvenuta prima, che voi ponete particolare attenzione nell’offrire la mostra alle nuove generazioni, coinvolgendole e mostrando loro cose che da anni per noi sono già nell’immaginario collettivo come ad esempio l’assolo di Hendrix a Woodstock. Perché è importante per voi continuare a diffondere e soprattutto sensibilizzare al rock i giovani e giovanissimi che sono già così distanti da anni concettualmente diversi come quelli ’60?

(C.A.) Innanzitutto grazie dei complimenti. La mostra rock nasce dalla passione mia e di Michelangelo che siamo due giornalisti, critici musicali, scrittori di libri e autori di musica e insegniamo storia del rock. Abbiamo visto negli anni che alle nostre lezioni accorrevano sempre più numerose persone e soprattutto un pubblico trasversale che va dai 12 anni – i ragazzi che iniziano a studiare chitarra – a signori di sessanta, settanta anni – quelli della Woodstock generation . L’intento nostro è quello di incuriosire, è quello di mostrare che c’è anche un’altra musica – la dark side of the moon dei Pink Floyd – ed è bello vedere i ragazzi appassionarsi all’inno americano di Jimi Hendrix, simulando un bombardamento aereo sulle città del Vietnam, un attacco feroce al governo Nixon. E’ una mostra alla quale io e Michelangelo teniamo molto e infatti noi siamo ogni giorno qua, compatibilmente con i nostri impegni di lavoro, per spiegare, raccontare, accompagnare le persone lungo questa storia di circa sessant’anni: pensate che il primo brano di rock ’n roll è datato 1951 e lo compose un allora diciannovenne Ike Turner, che per molti è “solo” il marito di Tina Turner, e parlava di un’automobile – il brano era “Rocket 88” – la Oldsmobile 88, perché dopo la guerra l’american dream era avere un’auto. Ecco, noi tutti ci sediamo in quella macchina e partiamo da lì arrivando fino ai giorni nostri, fermandoci su quelle tappe che noi riteniamo fondamentali, quelle degli anni ’60, sul progressive dei ’70, su Hendrix, i Doors, Janis Joplin, ma anche sui fenomeni più recenti come i R.E.M., gli U2, fino a oggi, al movimento Seattle, Nirvana, Alice in chains, Soundgarden, Pearl Jam e via dicendo. Questa mostra è la proiezione della nostra passione, una passione che è stata resa possibile grazie a una squadra di volontari, di amici della scuola rock che ci danno una mano continuamente, dall’allestimento all’accoglienza.





I volontari, figura ormai necessaria per l’allestimento di ogni evento culturale tanto a livello nazionale quanto locale; oltre al loro impegno c’è stato anche l’appoggio da parte di enti e/o istituzioni?

(C.A.) La mostra è interamente sostenuta da sponsor privati che Michelangelo e io abbiamo intercettato; sponsor privati che a loro volta sono appassionati di musica come noi. Però c’è anche da dire che dal Comune e dall’assessorato alla cultura, pur non avendo ricevuto soldi, abbiamo avuto a reddito zero tutto il primo piano di questa splendida struttura museale che altrimenti non avremmo potuto pagare. Questo evento è dunque veramente frutto di tanta passione e noi ringraziamo prima di tutto le istituzioni che ci hanno dato ospitalità qui al Pan e poi l’impegno e il sostegno di sponsor privati rock come noi.





Salutiamo Michelangelo Iossa, l’altro organizzatore principale della mostra. Nella presentazione di poc’anzi si è parlato soprattutto di “momenti storici” del rock, perché il rock è un movimento culturale, non solamente un genere, che investe la società i più livelli; esso ha vissuto e vive soprattutto di comunicazione immediata, fatta di eventi fulminei e messaggi lampo. Quali sono, secondo te, i momenti caratterizzanti, dove il rock ha incontrato la società – intesa anche come politica – e in qualche modo l’ha condizionata?

(M.I.) Grazie per questa domanda, che si prospetta come ricca e articolata. Il rock non ha una data di nascita e una di scadenza, ma è in perenne movimento: come tutte le cose non si distrugge ma si trasforma. Ci sono momenti in cui il rock ha definito il suo linguaggio ma rimane un qualcosa figlio del blues, dei canti dei campi di cotone, degli spiritual, dei gospel, del country, delle musiche di emigrazione. La gnawa music è rimasta in Africa, quando si è spostata in America è diventata jazz ma quando si è contaminata con altro ha reincontrato il blues e il country. Da questo grande frullato è nato quello che noi chiamiamo rock ‘n roll,  un nome che è stato dato da Alan Freed, un tizio che lavorava in radio ed è diventato il papà del nome rock ‘n roll. Per molti il primo brano che ha i caratteri tipici della canzone rock’ n roll è la suddetta “Rocket 88” di Turner, ma potremmo dire la stessa cosa di Chuck Berry, come di altri. Diciamo che c’è stato un momento storico negli anni ’50 in cui un gruppo di musicisti bianchi e neri hanno contribuito all’abbattimento di barriere culturali. Personaggi come Nat King Cole e poi Elvis Presley che era un bianco che cantava come un nero sono stati gli esecutori di quell’abbattimento definitivo tra la musica bianca e la race music, la musica della “razza”.
Momenti in cui il rock si è segnalato nei confronti della società sono molti, naturalmente. Innanzitutto, la partecipazione di Elvis all’Ed Sullivan show, quando lui cantando “Heartbreak hotel” muove il bacino e da quel momento le telecamere sono costretto a inquadrarlo dalla vita in su. Altro momento importante è il 1959 quando si abbatte su un montagna in America un elicottero che proveniva da un festival rock avente a bordo Buddy Holly, il più grande cantautore degli anni ’50, assieme a Big Popper e Ritchie Valens, nome d’arte di Ricardo Valenzuela, uno dei primi a portare il rock latino in America; gli Stati Uniti rimangono scioccati da questo evento, tanto che nel 1971 Don McLean canterà “bye bye, American pie / the day the music died”, “il giorno in cui la musica morì”. Un altro spartiacque è quando a un certo punto nel ’64 i Beatles, che nascevano dalla musica skiffle, sono ospiti all’Ed Sullivan show e sono visti da 74 milioni di spettatori – a tutt’oggi il record assoluto per un evento non sportivo nella storia della tv americana –. Addirittura il tasso di furti scese del 10% perché anche i ladri videro lo show e i Beatles ricevettero una menzione dallo sceriffo di New York; in quel momento questi quattro ragazzi di Liveropool insegnano il rock agli americani alla loro maniera. Altro momento spartiacque è il già citato inno americano di Hendrix a Woodstock, così come la morte di John Lennon nel 1980 con la sua ricaduta politica notevolissima. E inoltre “The wall” di Roger Waters (Pink Floyd) che ha anticipato la caduta del muro di Berlino, e più di recente “Vote for change” la campagna promossa da Bruce Springsteen, Jackson Brown, i R.E.M per sostenere il candidato alla presidenza John Carry, il Live Aid dell’85 che a sua volta si ispirava al concerto per il Bangladesh di George Harrison. Questi ultimi eventi hanno dimostrato che il rock aveva una coscienza, o comunque invitava ad averla.





Molta attenzione c’è anche nel trattare il connubio rock e cinema. Una sezione della mostra è dedicata a questo incontro e vediamo appese locandine di film potenti e comunicativi come “thunder road”, “il gigante”, “c’era una volta il west”, “il cacciatore”…

Tra l’altro, voglio ricordarlo, c’è una sezione all’interno della mostra che si intitola “like a vision”, curata dall’associazione culturale “pink cadillac music” che con oltre 70 pannelli espositivi racconta il rapporto tra il cinema e Bruce Springsteen. Sicuramente dei songwriters americani che noi raccontiamo in questa mostra – Joni Mitchell a Bob Dylan, a Leonard Cohen (in concerto a Roma il 7 luglio, N.d.A.), a Carol King etc. – Springsteen è in assoluto, molto più di Dylan e dei Beatles addirittura, il più cinematografico dei cantautori al mondo. C’è una sezione del sopraccitato “like a vision” che esplora le locandine dei film che hanno influenzato Springsteen e che lui stesso ha spesso citato nelle sue interviste.
Poi c’è una sezione dedicata alle musiche scritte da Springsteen per i film, un’altra che racconta invece quei film in cui appaiono o citazioni del cantautore o addirittura personaggi che prendono il nome da una sua canzone. Pensiamo soltanto che Springsteen ha dato alle stampe un disco capolavoro come “the ghost of Tom Joad” che era catturato da “Furore” di John Steinbeck, quindi c’è una connessione tra letteratura americana – in questo caso – e grandi artisti come lui che la dice lunga sul rock tra visualità e musica.
Chiudo questo mio intervento dicendo anche che noi abbiamo esplorato più volte il rapporto tra visualità e musica, lo abbiamo fatto anche in questa mostra. Per noi vedere la banana di Andy Warhol su una copertina significa un’universo sonoro; Peter Blake che realizza le copertine dei Beatles così come Richard Hamilton realizzerà quella del “white album” – una provocazione intellettuale –, pensiamo a Roger Dean con le copertine degli Yes, a Paul Whitehead con quelle dei Genesis. Queste sono persone che hanno inciso nella storia del rock al pari delle canzoni contenute nei dischi, per cui la visualità nel rock è pari alla musica, non è un accessorio, è esattamente identica.  





Il rock è un’espressione musicale che forse meglio di tutti gli altri generi riesce a far combaciare aspetti artistici diversi come l’immagine, il cinema, la letteratura. La mostra è molto attenta nell’evidenziare questa caratteristica ma allo stesso tempo è attenta anche a mantenere una natura “attrattiva” avendo la premura di esporre veri e propri mirabilia, oggetti rari e preziosi, come ad esempio il biglietto originale e non staccato di Woodstock.

(M.I.) Biglietto non staccato, tra l’altro, dovuto al fatto che a Woodstock erano previste poche migliaia di persone e ne vennero settecento mila. Quindi dietro quel biglietto non c’è solo un pezzo di carta ma un pezzo di Storia: c’è un sogno. Sicuramente tale sogno con Woodstock è anche finito: arriva all’apice, ma viene industrializzato dato che le case discografiche si accorsero del grande potenziale economico e lo trasformarono in un film che ottenne anche un oscar per la miglior colonna sonora; divenne anche un disco molto famoso, lanciò carriere come Joe Cocker, Santana, etc. Però in qualche modo sacrificò il sogno in nome dell’industria. Quel biglietto invece lancia un altro messaggio. Come dice Joni Mitchell “we were half a million strong” cioè “eravamo cinquecentomila forti”, e quel biglietto non staccato vuol dire “eravamo talmente tanti che abbiamo dovuto distruggere le transenne, entrare forzatamente ed esprimere il nostro sogno”. Ecco, quel biglietto è la certificazione di un sogno.





E mentre saluto i due gentili organizzatori, non posso far a meno di notare che a me quel biglietto non staccato fa pensare, emblematicamente, all’ingresso gratuito che caratterizza questa mostra e in qualche modo a quella certa democraticità del rock che si rende accessibile a tutti e che muore sempre un po’ quando viene incastrato negli ingranaggi della commercializzazione mentre invece trova il suo senso tra le masse, privo di confini e privo di pregiudizi.

martedì 12 febbraio 2013

Facciamoci del male

Inauguriamo oggi la nuova rubrica di questo blog, "facciamoci del male". Uno spazio libero, possibilmente antiretorico ma soprattutto di feroce autocritica perché è mia ferma convinzione che dal fondo del barile si esce prendendosi a calci in culo da soli.
Questa rubrica è aperta e disponibile a tutti coloro che desiderano parteciparvi con lo stesso spirito, segnalando opportune notizie in tal merito.



Gli Uffizi sono stati costretti a chiudere le "sale blu", inugurate da poco, per mancanza di personale supplementare in grado di sostituire quello principale, assente per motivi di salute.

Clicca qui per l'articolo di Repubblica.