La
mostra su Frida Kahlo ospitata alla Scuderie del Quirinale è attualmente il
posto con la più alta concentrazione di femministe nel mondo. Detto ciò,
regolatevi di conseguenza.
Difatti,
le uniche cose da sapere sono che l'esposizione è allestita bene (difficile che le
Scuderie dispongano un pessimo o mediocre allestimento), curata abbastanza a
livello didascalico, e sufficientemente attenta a collegare la pittura
dell’artista con quella dei suoi contemporanei e del suo tempo, in modo da
poter avere un affresco sociale e culturale entro il quale inscrivere il suo
lavoro.
Mi
sarebbe piaciuto vedere un accento sul folklore artistico messicano in generale
– in fondo Frida Kahlo è essenzialmente l’incontro di questo con il Surrealismo
europeo – ma il massimo che si è potuto fare in proposito è stato piazzare le
tele su pareti colorate a tinta unica. Il risultato che ne esce fuori è
probabilmente lo stesso effetto che devono aver fatto i suoi lavori la prima
volta che sono stati esposti in una mostra americana, cioè l’equivalente di far
sedere una gitana in mezzo a imprenditori in doppiopetto. Le opere esposte –
infine – non sono tantissime, ma riescono a rendere discretamente ciò che la
pittrice era agli occhi di neofiti o mediamente informati (quest’ultima categoria
è quella che principalmente riempie le sale dell’esposizione). Chi invece
conosce l’artista da tempo e spera di poter annegare nel suo lavoro, temo
resterà deluso, perché gli viene centellinato col contagocce.
Come
dicevo, questo è quanto c’è da sapere. E’ sottointeso parlare della pulizia
della sua pennellata, la nettezza di certe forme, l’eleganza del dolore
raccontato nelle sue opere. Frida Kahlo è una pittrice che ha trasformato la
sofferenza in arte – così come del resto hanno fatto migliaia di pittori – ma
ovviamente ciò che la rende particolare rispetto ad altri è la delicata
invadenza della sua personalità che riempie ogni millimetro di spazio delle sue
tele. C’è poco da fare, la Kahlo ha fatto e farà scuola nella storia dell’arte
anche se la sua è una di quelle lezioni pittoriche che sono felicemente aiutate
dalla sua storia privata. Questo dato è da tenere presente perché ci porta
all’affermazione che funge volutamente da incipit a questo articolo.
Visitando
la mostra, viene da chiedersi se le persone (che a quanto pare sono accorse in
massa decretando il successo dell’evento) siano lì per vedere una pittrice o
stiano semplicemente incensando un mito, un fattore iconico, un’idea biografica
e sociale. Un’immagine cigliuta che hanno visto su una spilla o un diario,
insomma.
Propendo
decisamente per la seconda, convinto per lo più dai cinguettii estasiati delle
ragazze davanti ai suoi quadri che quasi superavano il sibilo acuto
dell’allarme che segnalava un eccessivo avvicinarsi al quadro (suono quasi
costante perché ovviamente nonostante siamo il Paese dell’arte, ancora dobbiamo
capire che non possiamo spalmare la nostra faccia sopra un dipinto). Il punto è
che a me dà fastidio quando una persona inizia a diventare un’icona (non per
sua scelta, ovviamente) più per l’immagine che si porta dietro piuttosto che
per ciò che ha creato. E’ come dare del nazista a Wagner o – ancora più idoneo
al nostro caso – amare Caravaggio per la sua vita turbolenta ed estrema. Solo
un perfetto idiota può inquadrare la caratura artistica di un Michelangelo
Merisi entro i bordi di una vita all’insegna dell’ubriachezza, del gioco, delle
donne e dei duelli.
Tale
operazione è semplicemente il risultato di una società che propina ai suoi
membri una cultura fast food, epurata dagli orpelli più pesanti da digerire e
immersa in un restyling degno della
Apple, che esercita da anni la dittatura della linea estetica elegante ed
essenziale dell’oggetto, altrimenti non vale la pena produrlo. Dunque perché perdersi
in noiosi tecnicismi sugli sfumati o sulla reinvenzione del tratto artistico
delle civiltà precolombiane quando poi possiamo vendere Frida Kahlo
impacchettandola nella sua relazione tormentata con Diego Rivera e nel suo
concedersi la compagnia sentimentale femminile? Perché parlare dell’esperienza
surrealista che, plasmatasi in terra d’oltreoceano, perde i suoi connotati da
introspettiva psicologica (ombrosa) tutta europea e va a conquistare i caldi e
assolati simbolismi messicani quando ci troviamo di fronte a un succoso
incidente che tormenterà la vita di questa ragazza la quale nonostante tutto resterà
sempre libera, indipendente e comunista? Non siamo noi forse la terra dei
martiri, delle persone che acquistano un valore solo dopo morte o solo quando
la loro vita si lega all’infelicità? Ebbene, eccoci accontentati. Mi spiace,
sig. Magritte, lo so che lei è fondamentalmente il padre del Surrealismo, ma fin
quando non ci presenta un certificato di insana e debole costituzione, per lei
niente mostre, niente spillette e niente borse di tela con la sua immagine
sopra.
Sia ben
chiaro che non sto denigrando la vita di Frida Kahlo. Tutt’altro, sto
denigrando (e aspramente) la vita di chi si accosta alla sua pittura non
riuscendo a vedere in essa altro che il prodotto di una ragazza sofferente ma
innamorata, in una bizzarra e morbosa empatia degna di quella degli spettatori
dei sideshow di fine ‘800 che
andavano presso le carrozze degli zingari per poter ammirare donne barbute e
uomini elefanti.
Non
lasciatevi ingannare, non basta andare a una mostra per apprezzare davvero un
artista. Bisogna saperla guardare con gli occhi (e la mente) giusti. E Frida
Kahlo lo merita.