Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

venerdì 17 aprile 2015

Vola, colomba bianca vola - la visita del papa a Napoli




Il giorno 21 marzo papa Francesco arriva a Napoli. Plana dall’alto e atterra a Scampia, come una colomba bianca pronta a portare il suo ramoscello d’ulivo. E lo va a portare proprio in quella terra di nessuno (o meglio, della camorra) dove spaccio di droga e violenza sono le dure realtà con cui tante persone - la cui sola sfortuna è quella di essere nate nel posto sbagliato – devono convivere. Ma adesso è arrivato il papa: il papa è un simbolo forte, profondo; una sua parola può riempire pagine e pagine di giornali e ora ha l’occasione di lanciare il suo urlo gentile contro la criminalità organizzata. Ho ancora in mente la rabbia e la fermezza con cui Giovanni Paolo II lanciò un anatema carico di sdegno contro i mafiosi in un ormai famoso 9 maggio 1993 dalla valle dei Templi di Agrigento. “La mafia non può calpestare questo diritto santissimo di Dio” (quello di non uccidere), tuonava il polacco vestito di bianco. Parlava all’indomani dei due attentati che hanno sconvolto l’Italia e intanto dimenava il pugno, accigliato, e chiamava i colpevoli con il loro nome: mafiosi. “Lo dico ai responsabili, convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!”, da un lato brandiva il crocifisso, dall’altro un dito puntato – come quello che fra Cristoforo puntò contro Don Rodrigo – e da dietro il vescovo che lo accompagnava sul palco pareva quasi sbiancare, forse per l’audacia, forse la paura. Ce l’ho in mente – come dicevo – la scena, e spero tanto di rivederla adesso, con questo nuovo vicario di Cristo.

“La corruzione spuzza”, dirà il vicario.

“Spuzza”. Giusto questo si riesce a dire nel quartiere che ha visto (e vede) morti e feriti per mano della camorra. Una parola amabilmente storpiata come se fosse uno Stanlio o un Ollio a pronunciarla. Tanto basta. Penso a Giancarlo Siani, ad Annalisa Durante e tutte le altre vittime della camorra; la vita che hanno dato, il futuro che hanno perso, vengono equilibrati da una battutina: una risata li ha seppelliti, insomma. Battutine che papa Francesco non ha risparmiato sin da subito, da quando dice che il cardinale Crescenzio Sepe – arcivescovo di Napoli – lo ha “minacciato” pur di farlo venire qui. Che poi Sepe io aspettavo di vederlo più dello stesso papa, perché due giorni prima “le iene” (il programma televisivo di Italia 1) aveva mandato in onda un servizio in cui gli si chiedeva di mettere in regola due lavoratori della Curia di Napoli che da sette anni lavoravano senza contratto (soprattutto in virtù di una recente condanna che il papa stesso ha fatto nei confronti del lavoro nero che ha giustamente definito un “peccato gravissimo”). Nel video (che potete recuperare cliccando QUI), Sepe si limita a non rispondere e sgattaiola via dall’intervistatore (vi invito caldamente a recuperare l’intervista sul web). Come minimo mi sarei aspettato una reazione, una tiratina d’orecchie, un segnale forte che la Chiesa aveva l’opportunità di lanciare. Invece niente, il lombrosiano Sepe non ha l’opportunità di sbiancare così come è capitato al vescovo di cui sopra, sul palco di Agrigento. Anzi no, forse un momento in cui ha sbiancato c’è stato. E’ successo quando lui e il papa erano nel duomo della città e d’improvviso un macchiettistico e farsesco gruppetto di monache di clausura – boccaccesche più che mai – si è assiepata intorno a Francesco riempiendolo di regali e attenzioni. E io qui non posso non riportare parola per parola la reazione del cardinale a questo spettacolino cabarettistico: “eccole qua” esordisce all’entrata delle sorelle, e quando vede l’entusiasmo con cui circondano il papa esclama “ue, ue, dopo, dopo… ueeee, arò iati?! Dopo! Mann… uarda ‘cca… ma comm’è u fatt’? Sorelle, dopo… po’ riceno… uarda, uarda… e cchest’ so ‘i clausura, figuriamoci quelle di non clausura, che cosa succ…! Allora, allora… aeee, e chelle so’ mangian’, ‘natu ppoc’! Te’, te’… sorelle, sorelle… tenimm’ cche ffa…! Sorelle… ia, ia… mannaggia ‘a cchella, è semp’ essa, oh! Chella… chella… chella… oh, semp’ essa…!”. E su queste ultime battute, il video – che potete trovare tranquillamente sul web – finisce. Classico velo pietoso, suppongo.

Nel duomo frattanto il sangue magico di San Gennaro si scioglie in parte. E’ un miracolo. Fuori dalla chiesa, un giornalista del tg di “TV 2000” (edizione delle 18:30 del 21 marzo) intervista un passante chiedendogli un’opinione sul papa: “mi auguro che la venuta del santo padre a Napoli ci toglie un po’ di disoccupazione” dice infatti al microfono, avendo a quanto pare le idee più lucide e chiare rispetto alla stampa (e alla Chiesa stessa, direi) “chist’ è u miraculo ca vuless’ ‘a San Gennaro. I giovani stanno in mezzo alla strada”. Evidentemente la risposta non convince il giornalista che incalza con “c’è stata anche la liquefazione del sangue di San Gennaro. C’è stata un’esplosione quasi come un goal della squadra…”. Il passante, quasi accorgendosi del patetismo di una tale affermazione, interviene e precisa: “… a metà, non tutto. Tra tutti i papi che sono venuti, la metà l’ha avuto Francesco, e sono contento. Però la disoccupazione dei nostri figli è molto grave”. Grande lezione di giornalismo e di vita. Imparassero, l’intervistatore e il papa stesso, da questo signore: non serve ciancicare di bontà e carità a platee da intrattenere un quarto d’ora in una mondanità salottiera per far sì che la Chiesa faccia davvero il suo mestiere. Bisogna che essa scenda nelle strade e mastichi la polvere degli ultimi e dei disgraziati, che a Napoli abbondano e chiedono aiuto. Bisogna che la Chiesa impari da Don Giuseppe Diana, che nelle sue omelie indicava la colpa della camorra – a sua volta nata dalla colpevole assenza dello Stato – e per questo ammazzato da cinque proiettili nella sua stessa sacrestia poco prima di dire messa. Questa è la Chiesa di cui Napoli ha disperato bisogno, invece stavolta si è vista una Chiesa fatta di siparietti, di superficialità, di astuto intrattenimento, di pizza, incenso e mandolino. In piena coscienza, mi sento di dire con assoluta serenità che non bisogna prendere esempio da questo modo di intendere la religione: è il peggiore, è quello ipocrita, quello che tace e che acconsente. Che dice e non dice, vestito di nuovo e svestito di vero. Che magari condanna le pistole, ma non si mette mai nella traiettoria tra queste e le loro vittime.

E’ volata sino a Scampia, la colomba bianca. E dal lungomare Caracciolo è volata via. Ha sbattuto un po’ le ali, fatto cadere qualche piuma e poi ha spiccato il volo. La Chiesa che è arrivata a Napoli si è adeguata ai suoi costumi: invece di concludere la predica con l’ostia e il vino, ha preferito finirla con tarallucci e vino. 

domenica 5 aprile 2015

Io c'ero



Io c’ero, io ho visto.
Me li ricordo bene quei tre uomini crocifissi, ho ancora nelle narici l’odore acre del sangue che ammorbava l’aria intorno a loro. Tutto era morte e sofferenza.
Ricordo distintamente le membra disarticolate che col passare del tempo sempre più si staccavano tra di loro: le scapole piano piano non ce la facevano più a reggere il peso del corpo, che infatti si accasciava in una posizione innaturale e grottesca, tra gemiti di dolore che scemavano e stentavano per via della lunga sofferenza.
Ricordo i nomi: voi conoscete solo quello di Gesù, e poi avete le idee confuse sugli altri due. Qualcuno li chiama Hesta e Disma, altri Dimaco, altri ancora parlano di Tito, altri di Rakh; e voi che siete ancora vittime della punizione che Dio diede a Babele, non avete ancora capito che la parola è un inganno e i loro veri nomi sono Male e Bene. E Cristo ci stava in mezzo perché il suo destino è quello di stare in mezzo, tra paradiso e inferno, con la testa rivolta al cielo e i piedi sopra un cranio dannato. Io l’ho visto quel cranio bagnato di sangue, era proprio sotto la sua croce. Lo avevano visto pure gli ebrei, che infatti avevano chiamato quel luogo Golgota, così come i romani che, traducendo il nome, lo chiamarono Calvario. Ma quello che né gli uni né gli altri sapevano era che quello era il cranio del primo uomo, quello per cui oggi noi canaglie abbiamo perso il giardino felice e ci tocca stare qui a masticare polvere e sudore. Meno male che il sacrificio dell’Agnello ci ha tolto ‘sto peccato originale: ci voleva il sangue del figlio di Dio per battezzarci e farci rinascere a nuova vita.
Sì, perché che era un battesimo l’ho capito benissimo. Mi è stato chiaro quando quel Longino (vallo a sapere se poi era veramente quello il suo nome) invece di colpire le gambe per vedere se fosse morto, è andato a infilargli la lancia giusto sotto le costole. Allora lì tutti hanno visto uscire sangue e acqua, ma quello che non sanno è che quella era acqua benedetta, perché uno che predica l’amore e la pace senza “se” e senza “ma” deve averci per forza l’acqua santa dentro di sé.
E a proposito di quando è morto, mamma mia che colpo che fu. Non si capì più niente: eclissi, tuoni, rimbombi. La mazzata si sentì perfino giù all’inferno, che mezzo mezzo se ne cadde per il colpo, e infatti quel fiorentino che riuscì a visitarlo da vivo ha visto quanto sia crollato e malconcio il regno di Lucifero, tanto che pare Pompei oggi.
Io c’ero, io ho visto.
Ma porca miseria, quanto mi fece stare male vedere quel povero Cristo in croce. Dopo una roba del genere me ne sono tornato a casa con lo stomaco tutto intorcinato.
Però poi so che alla fine quel Cristo l’ha fatta in barba a tutti. Agli ebrei, ai romani, a Satana e alla morte stessa. Zitto zitto, quatto quatto, pare se ne sia uscito dal sepolcro e tanti saluti a dolori e pianti.
Ero tra la folla quando gli andammo incontro e lo abbracciammo. Altro che “noli me tangere”, quello si faceva toccare eccome! Perché era vivo, era ancora con noi, era felice di vederci e noi eravamo felici di rivederlo, di parlargli, di ridere con lui. Ce lo prendemmo sotto braccio e ce ne andammo in un’osteria a bere e mangiare, perché se nella morte il vino è sangue, nella vita il vino resta vino e ci piace perché ci sta bene tra amici e persone allegre. Insomma, tra risate, qualche bicchiere e lacrime di gioia, stavamo veramente una pasqua, tant’è che sembrava di stare a Scicli, in Sicilia, lì dove “u Gioia” – così lo chiamano il Cristo da quelle parti – se lo portano sulle spalle e lo fanno letteralmente correre per la città, tra applausi, petali di rose, balli, urla, bagliori di fuochi, botti, e danza volteggiando come un tarantolato tra quelle palme di Trinacria che tanto sembrano quelle dei deserti israeliani.
Io c’ero, io ho visto. Eravamo tutti contenti perché tra noi era tornato un uomo che ci aveva detto che pure noi straccioni un giorno saremmo andati in paradiso, e che lì non c’erano ingiustizie, né prepotenze, né i calci in culo della vita. E pur di dimostrarcelo ha buttato letteralmente il sangue.
Come fai a non volerci bene a uno così?