Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

mercoledì 31 dicembre 2014

Buona fine e buon principio

Le ultime ore del 2014 ci lasciano con una spolverata di neve che coglie (quasi) tutti alla sprovvista. “Quasi”, perché su al Nord ci sono abituati: è inverno, capita spesso. Qui al Sud invece la vediamo pochissimo e se all’inizio ne rimaniamo tutti incantati (siamo bambini, mettetevelo bene in testa: lo aveva già detto Pascoli tempo fa e chissà quanti altri prima di lui), dopo iniziamo a soffrirne i disagi: tubi ghiacciati, freddo, caldaie che non vanno, strade scivolose. Come in tante cose della vita, c’è un po’ di magia e un po’ di materialismo; l’uno stupisce, l’altro ferisce.
Ma questo rimanere a volte felici in meraviglia e altre delusi nella sconfitta, quanto ricorda noi italiani. Sappiamo giocare – a volte pure troppo – e poi stufarci presto del giocattolo, di rimbrottare, lamentarsi, spesso senza fare qualcosa ma solo sapendo delegare gli altri di farlo.
La verità è che la neve non è né gioco né problema; semmai lo siamo noi a seconda del nostro modo di relazionarci col mondo. La neve è una specie di mistero che se ne sta lì fuori, un enigma di ghiaccio delicato che non chiede di essere risolto. Se ha un messaggio, sicuramente sarà tanto saggio quanto effimero, un monito lontano che volteggia nell’aria e si posa sui tetti delle case, per poi sparire. E in quelle giravolte bianche sembra raccontare in un haiku la sostanziale futilità del tutto.

“Solo perché esisto
sono qui,
tra la neve che cade”

(Kobayashi Issa)



Auguri. Un po' a tutti.

Danilo D'Acunto

giovedì 25 dicembre 2014

Canto (di Natale) notturno di un pastore errante della Cisgiordania





La voce urlava da lontano, o forse era tutta nella mente del pastore.
“Dopo di me verrà un altro ancora più potente di me. Io non sono nemmeno degno di sciogliere i lacci dei suoi sandali. Quando egli verrà la terra deserta si rallegrerà e fiorirà come il giglio. Gli occhi dei ciechi vedranno la luce del giorno e le orecchie dei sordi si apriranno. Il neonato poserà la mano sui nidi dei dragoni
e condurrà i leoni per la criniera!”.
Il pastore finì di mangiare il pezzo di formaggio che aveva portato da casa. Si rannicchiò sotto una palma e provò ad addormentarsi. “Chissà da dove viene quella voce”, pensò. Attorno a lui, soltanto sabbia e la linea dell’orizzonte dolcemente ondulata dalle dune. Poi guardò il cielo socchiudendo gli occhi.
“Mamma che strano il cielo stanotte” disse tra sé. “E’ così nero e profondo tanto da sembrare che questa notte non abbia mai fine. S’è pure mangiato tutte le stelle, non è rimasta che qualche lucina sparuta qua e là”. Perché in effetti quella notte il cielo era un manto freddo che sembrava avesse ingoiato la Terra. Tutto era silenzio, neanche un filo di vento che fischiava, la natura era immobile. Solo la voce ogni tanto scompigliava un po’ le cose.
“Non ti rallegrare, terra di Palestina, se il bastone di colui che ti colpiva è stato spezzato. Poiché dalla progenie del serpente nascerà un basilisco, e il figlio di questo divorerà gli uccelli!”
Il pastore, che era perso nei suoi pensieri, sussultò a quell’ennesimo grido venuto dal nulla. Ma che diavolo voleva dire, quella voce? Di che diavolo blaterava? Ma chi lo capiva e soprattutto, chi gli prestava ascolto?
“Sarà qualcuno di quei soldati romani ubriachi fino all’osso, ripieni di vino speziato e la bocca che puzza di garum”. Cosa diavolo ci facevano dei romani in quella terra così lontana da casa, vallo a capire. Non gli bastava fare i padroni a casa loro, adesso dall’Occidente erano arrivati in Oriente per comandare e imporre la loro pax a colpi di spada.
Il pastore scorse due piccole stelle che brillarono per un attimo e poi sparirono. “Forse qualcuno di quegli dèi di cui parlano e che stanno in cielo ha aperto e chiuso gli occhi” pensò. “O forse era qualcuno lontano che voleva vedermi. Forse era mia madre. Chissà com’erano gli occhi di mia madre. Chissà com’era mia madre. Non l’ho mai conosciuta, e vorrei tanto. Io ho conosciuto un po’ mio padre, ma appena appena, perché poi ho conosciuto la terra. Non c’era tempo di parlare e conoscersi. C’erano i campi da lavorare, da bagnare spesso con l’acqua, perché da queste parti seccano facilmente, e allora bisogna mantenerli umidi il più possibile; e così ho fatto, con la schiena spezzata dal continuo chinarsi, e le braccia dolenti per lo spostare zolle di terra. Ma alla fine il mio orto ha dato frutti, ho visto la vita nascermi tra le mani e con cura l’ho fatta crescere rigogliosa: la mia fatica aveva avuto un senso. Poi sono venuti loro. E hanno recintato il mio campo, dicendomi che non era più mio. E quando ho chiesto il perché, mi hanno risposto in latino affinché io non capissi e loro potessero continuare a fare quello che volevano. Hanno preso i miei frutti, ed è stato come se mi avessero preso la vita. Hanno rubato il mio sudore e il mio sangue. Quando ho protestato mi hanno bastonato. A me sono toccati poveri scarti, il resto a loro”.
E di nuovo la voce rimbombò nel vuoto: “Dov’è colui la cui coppa è ormai colma di abomini? Dov’è colui che, vestito d’argento, morirà un giorno davanti al popolo intero? Ditegli di venire affinché possa udire la voce di colui che ha gridato nei deserti e nei palazzi dei re!”
“I palazzi dei re sono un inganno” rispose di rimando il pastore, “urlano la loro grandezza, ma rispetto alla terra su cui poggiano sono piccolissimi. Il loro sfarzo strepita forte, ma alla fine si perde nel silenzio di questa notte. Risplendono di mille colori, eppure questo buio così nero sa come inghiottirli. Tutto qui è scuro, non c’è traccia di luce in questo cielo senza più anima”.
E poi una linea. Una linea solcò il cielo tagliandolo a metà. Luminosa, sembrava uno squarcio nel velo dietro il quale si nascondeva il sole. Nitida, chiarissima, cavalcò l’aria per quarantamila e quarantamila cubiti, viaggiando così veloce da far alzare un forte vento al suo passaggio. La voce parve notarla e infatti disse “È venuto il momento! Quello che avevo predetto si è avverato. È venuto il giorno di cui avevo parlato e sento sui monti i passi di colui che sarà il Salvatore del mondo!”
La linea luminosa rallentò e, fermandosi, si ridusse a un puntino brillante. Il pastore lo fissò per un istante, e subito dopo volse lo sguardo intorno a sé.

E poi a un tratto l'amore scoppiò dappertutto.

Quella luce lontana sembrava chiamarlo. Anzi, sembrava chiamare a sé tutti gli uomini e la natura stessa. Il pastore si alzò scrollandosi la sabbia di dosso e seguì il tracciato opaco che la linea luminosa aveva lasciato, fin quando non lo portò a un gruppo di persone strette intorno a qualcosa, alle quali mano mano se ne aggiungevano altre, venute dai posti più disparati. Percorrendo l’ultimo tratto del percorso, udiva la voce – ormai lontana – sfumare nel vuoto: “sarà seduto sul suo trono. Sarà vestito di porpora e di scarlatto. Terrà in mano un vaso d’oro colmo delle proprie bestemmie. E l’angelo del Signore Iddio lo colpirà. E sarà mangiato dai vermi.”
Giunto abbastanza vicino da poter vedere cosa stava accadendo, vide che, esattamente in corrispondenza del puntino luminoso, una madre stava allattando il proprio figlio, assistita dal marito. Entrambi sembravano provati per un lungo e penoso viaggio ma in qualche modo in quel momento preciso le loro ansie e dolori sembravano tacere, intente anche loro a osservare il punto luminoso nel cielo.
Il pastore vide il bambino e d’un tratto percepì quell’infante come se fosse la madre che non aveva mai conosciuto, il padre con il quale non aveva mai parlato, la fatica che non aveva trovato riposo, i frutti dei quali non aveva potuto godere. E allora gli porse una lunga serie di domande, tutte mute.
Il bambino guardò il pastore e in lui vide il sudore, la prima brina che bagna le piante dei campi coltivati, vide i muscoli, tesi e asciutti come le assi di una vecchia barca che riposa al sole, e vide le mani nodose per via dei calli cresciuti a furia di maneggiare utensili. E poiché il bambino era il figlio dell’Uomo, riuscì a vedere negli occhi del pastore gli occhi di tutti i pastori del mondo. E dei contadini, dei fabbri, degli operai. E vide gli occhi degli ultimi e delle vittime; di quelli che muoiono gridando e quelli che muoiono senza neanche saperlo. Vide gli occhi di un poliziotto, quelli di uno studente, di un sindacalista, di un magistrato, di un poeta, di un calzolaio, di una prostituta, di un professore, di un ferroviere, di un immigrato, di un pescivendolo, di un ladro. E d’improvviso sentì su di sé la stanchezza del mondo.
“Voi uomini avete chiesto di me qui sulla Terra e io sono venuto” disse il bambino. “Ma voi stessi un giorno mi rinnegherete, e non quando avrete appeso il mio corpo esangue e le ossa disarticolate al legno, ma quando dimenticherete la vostra stessa dignità marciando a passo d’oca verso il disprezzo degli altri; mi rinnegherete dimenticando il verbo e scegliendo la forza, e mi rinnegherete non al canto del gallo ma al sussurrare della civetta perché amerete il buio che nasconde piuttosto della luce che rivela. E mi rinnegherete perfino negli onori: infatti mentre oggi tre sovrani si inchinano a me, un giorno io sarò costretto a inchinarmi – per vostro volere e colpa – davanti a potenti che in realtà potenti non sono, ma solo uomini che mi hanno rinnegato già prima di voi. Mi rinnegherete, infine, perfino nel più grande insegnamento che ho da darvi: mi rinnegherete nell’amore. Questo amore che stanotte è esploso con forza stracciando il cielo e scompigliando la sabbia un giorno sarà solo il pallido ricordo di un momento che fu e che ritorna soltanto nei canti, nei sogni e nelle statuette di argilla. Eppure, ciononostante, ancora una volta, eccomi qua. Perché nonostante tutti gli uomini mi rinnegheranno, tu non lo farai e siccome la tua vita, da sola, è migliore di quella di tutti gli uomini del mondo, io la onorerò concedendole la mia”.
La notte avvolse tutto l’orizzonte. Lontano, tra le dune e le rocce, una rosa sbocciava e si tingeva di rosso. 


(P.S. In questo racconto sono state volutamente inserite svariate citazioni di natura letteraria e musicale. Riuscite a trovarle tutte?)

martedì 23 dicembre 2014

E un'altra notte è andata

Molti ti ricorderanno guardando gli strip tease.
Io invece ti ricorderò quando cantavi mezzo in estasi e mezzo incazzato sul palco di Woodstock, scolpendo la storia del rock.

Joe "Rocker"

venerdì 19 dicembre 2014

19 dicembre

19 dicembre 1843

Viene pubblicata la prima edizione de "A Christmas Carol" di Charles Dickens, la storia di Natale per eccellenza, che da allora viene raccontata ancora oggi attraverso film, sceneggiati tv, cartoni, opere teatrali, musical e reinvenzioni in mille salse diverse.




19 dicembre 1861

Nasce Italo Svevo (pseudonimo di Aron Hector Schmitz), uno degli scrittori che a volte la trattazione scolastica e l'esame di maturità rendono piatto e antipatico, mentre invece è uno dei più affascinanti e acuti anticipatori della letteratura italiana del '900. Ora che le feste ci riserveranno diversi pomeriggi da trascorrere nel tepore domestico, provate a dare una rilettura alla "Coscienza di Zeno", e vedrete quanto è profondo quel libro.

 
Speriamo che il 19 dicembre ci regali ancora qualche altro capolavoro

martedì 16 dicembre 2014

Benigni 0.0




(Vignetta di Stefano Disegni tratta dal suo sito stefanodisegni.it)


Dante. Vabbè, Dante ci sta perché Benigni è fiorentino come lui, perché Dante è sempre attuale, perché le lecturae Dantis si sono sempre fatte. Andata.
Poi la Costituzione italiana. Il collegamento si fa con più fatica, ma Benigni dopo “La vita è bella” ha iniziato a essere un monumento nazionale intoccabile, e quindi pure lo facciamo passare. D’altronde, diffondere i dettami della legge italiana è un gesto civico e civile e alla fine poco importa chi lo fa, l’importante è farlo.
Sull’inno di Mameli qualcosa già traballa. Non perché illustrarlo sia meno civile che spiegare la Costituzione, ma perché ci si inizia a chiedere quale sia il collegamento tra Benigni e l’inno, e la domanda che silenziosamente serpeggia è: “ma non è che si sta provando a raschiare il fondo del barile solo per mettere in croce due puntate di puro share?”. Domanda la cui risposta è in parte ovvia e lecita; la si accetta però questo vago senso di forzatura rimane.
E infine (per adesso) i Dieci Comandamenti. E allora lì uno pensa che quando si divulga un messaggio etico va comunque bene, però c’è modo e modo; e il modo in questo caso presupporrebbe una messa in scena da parte di qualcuno che ha maggiori credenziali in merito: un rappresentante della Chiesa, magari, o quantomeno uno studioso della Bibbia.
Benigni invece non è né l’uno né l’altro, e di questo l’interpretazione ne risente. Perché il grande difetto e il senso di fondo che rimane della sua lettura/spiegazione è che tutto viene assurdamente incastrato in una morale che sostanzialmente di religioso o biblico non ha niente, ma è invece rivisto sotto un’ottica che si vuole necessariamente super partes e buona per tutti.
Chiunque abbia letto interamente la Bibbia, infatti, sa che i testi sacri del Vecchio Testamento sono un capolavoro letterario che però – come tutti i libri storici – va inserito nel suo contesto e nel suo tempo. Non si può dire che nell’espressione “io sono il Signore Dio tuo” quel “tuo” vuole intendere un rapporto di possesso da parte di chi riceve la legge (“questo regalo è tuo”). Mi spiace, ma è una forzatura buona appunto per edulcorare determinate sfumature del dio veterotestamentario che inevitabilmente cozzano con l’immagine di amore universale presenti invece solo nei Vangeli del Nuovo Testamento. Il Dio di Noè, Abramo, Mosè è un dio severo, punitivo, rigido, che dispone ordini precisi ai quali il popolo d’Israele deve attenersi. Il “tuo” di quel comandamento indica chiaramente che si deve appartenere a Lui e – appunto – non si avrà altro dio all’infuori di Lui. Esiste un preciso rapporto di filiazione che connota le caratteristiche di Yahweh nei confronti del suo popolo e che va letto e rispettato nella sua forma originaria, non manipolato a piacimento solo per renderlo attuale o. più precisamente, per riempire adeguatamente lo share di due serate sul canale principale della rete nazionale.
E ce ne sono altri, di momenti del genere. Come ad esempio l’interpretazione cattocomunista/cattoanimalista/cattoambientalista del terzo comandamento, quello che i Padri della Chiesa – a loro volta manipolando ciò che era scritto nella Bibbia ebraica – hanno reso con “ricordati di santificare le feste”, e che nella sua stesura originale era la sanzione dello Shabbat, il giorno in cui gli Ebrei osservanti non devono lavorare o compiere atti.
Ma iniziare ad appuntare tutti gli errori, le imprecisioni, le contraddizioni e le forzature che Benigni ha inserito nel suo spettacolo potrebbe rivelarsi un esercizio alquanto sterile e – per me – noioso.
Viene da chiedersi se questo panteismo ricolmo di amore hippy e stantio buonismo che Benigni sta propinando come corretta lettura dei testi sacri sarà interrotto dal racconto di ciò che succede subito dopo che Mosè ha ricevuto i comandamenti da Dio e si presenta al popolo d’Israele dicendo:

“Quando il Signore tuo Dio (a proposito dell’aggettivo “tuo”, N.d.A) ti avrà introdotto nel paese che vai a prendere in possesso e ne avrà scacciate davanti a te molte nazioni: gli Hittiti, i Gergesi, gli Amorrei, i Perizziti, gli Evei, i Cananei ei Gebusei, sette nazioni più grandi e più potenti di te, quando il Signore tuo Dio le avrà messe in tuo potere e tu le avrai sconfitte, le voterai allo sterminio; non farai con esse alleanza né farai loro grazia. Non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me, per farli servire a dei stranieri, e l’ira del Signore si accenderebbe contro di voi e ben presto vi distruggerebbe.
Ma voi vi comporterete con loro così: demolirete i loro altari, spezzerete le loro stele, taglierete i loro pali sacri, brucerete nel fuoco i loro idoli. Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra…”

(Deuteronomio, paragrafo 7, versetti 1-7)

Perché appunto, come dicevo, il dio del Vecchio Testamento è un dio irascibile e vendicativo, il che letto oggi non significa voler denigrare gli insegnamenti della Bibbia, ma saperli contestualizzare, accettandoli nelle loro contraddizioni perché la Bibbia non è un testo da cui prendere ma da cui apprendere, così come oggi leggiamo la Storia anche nelle sue brutture e nei suoi orrori affinché oggi, apprendendo da essa, non vengano più ripetuti. Benigni con questo spettacolo sta appunto facendo un lavoro di (pessimo) revisionismo storico, piegando fatti e condizioni del passato alla logica dei nostri tempi, contorcendo la verità, frullandola, spezzettandola e tritandola in modo da soddisfare i palati nazionali in uno sbadigliante e sonnacchioso dopocena borghese.

Non sto qui a rimpiangere il Benigni del Cioni, quello del “Pap’occhio” o quello dello spettacolo “Tuttobenigni 95/96” che a differenza di quello di oggi sapeva come maneggiare con ironia e intelligenza i dogmi della Chiesa, né tantomeno a sindacare sul suo compenso (cari amici del M5S, le vostre polemiche non mi interessano); sto parlando esclusivamente di una corretta e giusta divulgazione culturale, che nello spettacolo è sostanzialmente assente.
Che Benigni volesse una tiara in testa si era abbondantemente capito dai tempi di “Pinocchio”. Stava preparando il terreno per un “Benigni 2.0”, moderno, pulito, gioviale, e che si aggrappava a una simpatia tosco-contadina tutta gestuale e sgambettante: un Renzi dello spettacolo, insomma. Ma quello di ieri sera non era neanche il 2.0, era lo 0.0: Benigni è andato a ritroso, a metà tra un Paolo Brosio e un Giorgio Panariello, bambino meravigliato di tutto che si stupisce della profonda poesia di ogni singola parola o concetto (“ma questa è una cosa strepitosa…!”) ma – precisiamo – non è né il fanciullino di Pascoli né il Pinocchio di Bene: è solo una persona che avrebbe tanto da imparare. Il che sarebbe una cosa buona, del resto, se non fosse che però sta in cattedra.
Benigni (spettro di Renzi, che si aggira per l’Italia) metafora nazionale. 



Nota personale: che tristezza sentirlo parlare di Carlo Marx, arrivato secondo dopo Dio, senza più l’acume satirico di una volta, e che tristezza (mista a una puntina di rabbia) sentirgli dire, parlando del terzo comandamento, “altro che sessantotto!” (sic). Nel giorno in cui, tra l’altro, si ricorda la morte di Pinelli e, volendo, quella di Toro Seduto.