Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

martedì 31 dicembre 2013

Last, but not least

Auguro tanta serenità e tantà felicità a chiunque nel mondo abbia ancora un briciolo di dignità, di rispetto e di umanità per se stesso e per il prossimo.




Buon 2014

giovedì 28 novembre 2013

Il sacro e il profano








Qual è (o può essere) il ruolo della Massoneria all’interno del nostro panorama sociale? E’ questo il tema che si affronterà domenica 1 dicembre 2013 in un’agape bianca (il termine, mutuato dalla nomenclatura ecclesiastica, indica specificamente un simposio massonico aperto anche ai profani, vale a dire ai non appartenenti) organizzata da Mariano Iodice, Maestro Venerabile della loggia “Might and Freedom” e iniziato al percorso massonico il 18 aprile 1986 in Sicilia. L’appuntamento, che si svolgerà presso la sala convegni del ristorante Eclipse di Montecorvino Rovella, inizierà alle ore 11 proseguendo in convegno fino alle 13, dopodiché si entrerà nello spirito più puro dell’agape (il senso massonico del termine è appunto questo) con un banchetto rituale e simbolico – completato da un pranzo vero e proprio –, proseguendo e concludendo infine con un ulteriore momento di approfondimento sul tema conduttore dell’evento, che è appunto quello sopra enunciato, il tutto in memoria del Fratello Aurelio Giordano, da poco scomparso.
Si sottolinea la partecipazione aperta a tutti perché è nello spirito di questa loggia, come di altre presenti nel panorama nazionale e internazionale, cercare di fare chiarezza sulla natura stessa della Massoneria che da tempo è avvolta non più da un velo di rispettosa, sacra laicità quanto piuttosto da una patina superficiale di disinformato pressapochismo che la relega, a seconda dei casi, a manovratrice occulta, setta esoterica dalle sfumature anacronistiche, e infine a lobby plutocratica imperniata sui rapporti mafia-politica.
Facciamo chiarezza, dunque, e facciamola in toto, con una doverosa apertura intellettuale ma anche altrettanta onestà. La Massoneria (o meglio, un qualcosa ibrido della stessa) è stata ed è anche ognuna di queste definizioni. Ma il rapporto che equilibra le due realtà accomunate da uno stesso nome (forse nel caso più infelice varrebbe la pena di dire “nomenclatura”) è lo stesso che intercorre tra il principio stesso di servizio sanitario e la malasanità: la verità dei fatti è un miscuglio nietzschiano  di uomini e volontà di potenza alla quale spesso i più deboli (che quasi sempre coincidono con i più onesti) soccombono sopraffatti da un desiderio di potere che non è più quello moderno (nel senso storico del termine) che ha creato nazioni e ideologie, quanto piuttosto un desiderio tutto nostro e contemporaneo, famelico, senza dignità, mediocre, tanto degradante quanto dilagante. Dunque è necessario imparare a distinguere cosa è veramente cosa, andando ad approdare nei lidi più profondi della natura delle cose e attraverso le coltri della storia.
Cosa sia la Massoneria è davvero difficile spiegarlo nella sua interezza e a tentare di farlo si commetterebbe sicuramente l’errore della parzialità dell’informazione, dato che per sua natura essa rimane una struttura che vive in maniera privata, iniziatica e reclusa alla massa. Questa sua caratteristica, vista attraverso le lenti del nostro tempo, le è valsa un’etichettatura “antidemocratica”, ma conviene scomodare i meandri storici per arrivare a capire che la non divulgazione di tecniche e conoscenze è soprattutto il retaggio di una necessità di conservare determinate branche del sapere e tramandarle non tanto a chi era degno di fede quanto degno di cultura. Seppure infatti la costruzione architettonica della Massoneria affonda buona parte delle sue fondazioni nel culto della sacralità, è pur vero che gran parte della sua missione di perpetuità ha uno scopo del tutto laico, quasi illuminista. Lo prova infatti la terminologia che da secoli ormai distingue gradi, oggetti e simboli: il Grande Architetto, l’Apprendista Muratore, il Maestro, la squadra, il compasso, le colonne, etc, sono solo alcuni di tanti esempi che si potrebbero fare in merito. Per precisione e correttezza c’è da dire che tutta questa terminologia, e la conseguente ritualità, con il passare del tempo e delle correnti filosofiche, storiche e nazionali che hanno attraversato le varie logge, vivono ormai una sorta di dialogo tra religione e laicità (ma questa è una conseguenza inevitabile dell’incessante progredire della storia, ed esempio come il Demiurgo platonico o il motore immobile aristotelico che si tramutano nel Dio cattolico medievale e poi nuovamente nell’Assoluto hegeliano nella sua natura più trascendente). Ciò che ci importa sapere è che alla base di ogni sfumatura di pensiero c’è il bisogno del tutto pratico e materiale che avevano gli uomini di cultura nel conservare determinate conoscenze tecniche al fine di conservare l’umanità stessa: l’impianto e il senso più antico e profondo della Massoneria nasce quando durante il medioevo, in un periodo che per tutta una serie di motivi aveva dimenticato tanto dello scibile umano finora raggiunto dalla classicità, gli architetti (capaci di leggere e far di conto) si erano ritrovati a essere – scientemente e non – una classe privilegiata per il solo fondamentale motivo che riuscivano a concepire edifici. Erano le persone in grado di poter mettere un tetto sulla testa dei re. Erano privilegiati, e quindi si venne così a creare il binomio “uomo di sapere/uomo di potere” e il loro tipo di potere, che non era fatto da possedimenti di terra o uomini, doveva restare elitario e tramandato soltanto agli “addetti al mestiere”, vale a dire a coloro che erano in grado di percepire l’essenza più pura – e forse rivoluzionaria – della cultura. Capire la storia della Massoneria è capire la lezione impartitaci dai “Rois thaumaturges” di Marc Bloch, forse lo storico più importante del Novecento e che ha dato vita alla concezione più innovativa e completa della storiografia contemporanea. Con questo trattato, Bloch postula l’esistenza di una storia più profonda e segreta, indagata par les dedans; una storia che cela il suo significato più intimo attraverso le leggende, il mito, la tradizione orale, le testimonianze impalpabili. I re taumaturghi (cioè quelli in grado di guarire il popolo attraverso il tocco – pratica fondante del concetto di regalità medievale) si ritrovano a essere non più una credenza popolare da leggere con occhi deridenti e che gli storici di un tempo avrebbero scartato in quanto faux nouvelle, ma l’essenza più pura di tutto un periodo storico e del suo modo di strutturare il pensiero. 
Da questo nucleo centrale degli architetti/saggi si diramano poi infiniti percorsi dai quali nascono una o più logge. E a seconda dei casi, del tempo e dello spazio storico, ogni loggia avrà una propria formulazione di principi, di regole, di riti. Soprattutto, di identificativi. Perché ogni loggia massonica è fortemente caratterizzata da propri indirizzi e caratteristiche, quasi come se volesse distinguersi e munirsi di una personalità unica, forte e determinata. Da qui nasce quell’esigenza di rigore e segretezza non tanto per separarsi dal mondo quanto piuttosto per evitare di svendersi e confondersi nella massificazione, cosa che è capitata più volte ed è esattamente ciò che è successo negli ultimi decenni al Grande Oriente d’Italia (la più antica e numerosa loggia massonica italiana), tanto che da una sua costola è andata creandosi la Gran Loggia Regolare d’Italia, l’unica della nostra nazione a essere riconosciuta dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra (che in una maniera generica possiamo considerare la loggia “madre” e ufficiale della Massoneria nel senso più “accademico” del termine).
Le logge dei nostri giorni sono molteplici, affratellate tra loro anche se distinte. Ma oggi la questione non è più tanto sui principî quanto sull’esigenza o meno di dare un volto nuovo alla Massoneria distogliendosi, seppure con dei limiti, da quello spazio di segregazione dal pubblico che tanto ha prodotto l’alone di mistero e illegalità costringendo, soprattutto noi italiani reduci dalla P2, ad accostarla all’illecito e al criminoso delle sette segrete o delle lobby atlantiche. L’evento del 1 dicembre di cui sopra è appunto un segnale di apertura, innanzitutto alle varie logge che si uniranno all’agape (principalmente del sud Italia, ma anche Lombardia, e in particolare della Serbia) ma anche a soprattutto al pubblico e chiunque sia interessato.
E’ un’occasione, questa, per osservare, attraverso uno spiraglio appositamente posto dall’interno, un fenomeno controverso e sul quale non si smetterà mai di scrivere inchiostro, soprattutto a un livello qualunquistico. Ciò che per i massoni è identificato come “profano”, dall’altro punto di vista (da quella che si potrebbe ugualmente definire un’obbedienza civile, giuridica e religiosa, e cioè lo Stato) si chiama “cittadino” e in lui dovrebbe essere innato moralmente il dovere di denunciare le storture sociali che gli crescono intorno. E quindi, approfittare di un tale momento di esposizione al pubblico da parte di una loggia, è anche un modo per constatare di persona la veridicità di certe affermazioni e di certe intenzioni. Ciò che importa è farsi carico di una tale responsabilità avendo cura di non osservare le cose con i paraocchi di una cattiva e incompleta informazione. E chissà che il gesto simbolico di togliere la benda dagli occhi dell’aspirante massone che sta per essere affratellato non possa tornare utile anche ai profani.



lunedì 25 novembre 2013

Dead can dance - la Morte ironica nell'immaginario medievale











Nelle terre germaniche si chiama totentanz, ma la prima a essere usata fu la sua versione francese, e cioè danse macabre, ed è uno dei temi iconografici più tipici del medioevo, e forse tutta l’essenza di quel periodo è racchiusa in questo simbolismo. Anche qui in Italia è variamente diffuso, dato che il lontano parente da cui nasce è del tutto italico. Romano, per la precisione. Il suo nome originale (latino, appunto) è memento mori, che in una maniera più o meno letterale traduciamo come “ricordati che devi morire”. L’immagine è tipica: uno scheletro, o solamente un teschio generalmente inserito nel quotidiano. A volte regge delle brocche d’acqua, altre ha in mano strumenti di lavoro (che a loro volta nascondono ulteriore simbolismo dietro), altre ancora si riduce a essere un mucchietto scomposto di ossa. Come a dire che questo destino – per nostra sfortuna e fortuna riservato a tutti noi – è una cosa che serpeggia continuamente nelle nostre vite, nei nostri momenti più intimi, perfino in quelli più  spensierati. Ma i Romani, come i Greci, avevano la fortuna di non essere cristiani, quindi per loro riempire angoli di strada e case con l’immagine di un teschio non era un monito severo e inquietante che faceva leva sulla debolezza degli uomini, quanto piuttosto un modo grottesco ma non macabro per esortare a godersi il momento (carpe diem, diceva Orazio e la sua lunga eco umanistica avrà come risposta un “di doman non c’è certezza” da Lorenzo de’ Medici) e, in fondo, anche come consolazione perché in un certo giorno ricchi, poveri, arroganti, sfruttati, operai, padroni, servi, generali, dittatori e cittadini saranno tutti uguali agli occhi del mondo (e qui la risposta appartiene al principe De Curtis con la sua “livella”). Da questo messaggio, come detto sopra, proviene la danse macabre o totentaz (rispettivamente “danza macabra” e “danza della morte”) medievale, vale a dire l’immagine iconica della morte, rappresentata come uno scheletro, che balla o suona un motivo al quale si uniscono persone di vari ceti sociali. Ma cosa c’è in questa allegoria? Sicuramente, essa nasce come morboso avvertimento ecclesiastico tanto verso i peccatori quanto i timorati di Dio (che inevitabilmente non erano mai abbastanza timorati); tuttavia, nel riflusso basso medievale, superata la paura dell’anno Mille, essa assume un carattere più giocoso, decisamente giullaresco nel senso più puro del termine. In sé intendeva racchiudere tanto il monito di inevitabile livellazione umana, quanto la visione goliardica sia dell’essere umano che della morte stessa. Non a caso, siamo in un periodo dove la Falciatrice è di casa, estremamente frequente e quindi inevitabilmente costante compagna di vita. E l’uomo medievale, che non era del tutto impreparato e ignorante così come si crede, preferisce dipingerla come una specie di amico con il quale ballare. Oggi diremmo un amico con il quale uscire e andare a bere qualcosa, ma, traslato, il senso è quello. Dunque la totentanz non diviene più un’immagine macabra (da qui la differenza teutonica dall’originale francese), quanto piuttosto una triste compagna con la quale ci si può anche scherzare. L’evoluzione stessa del tema – onnipresente nell’arte più di quanto si possa immaginare – lo dimostra. Dai codici medievali, passando per innumerevoli affreschi (tra i tanti, valga quello della Marienkirche a Berlino del 1485), bassorilievi, tele (nuovamente, tra le tante, “Der zug des todes” di Gustav Sprangeberg, 1876) fino ad arrivare alla musica (“Totentanz” di Liszt del 1859), e addirittura a Walt Disney (“The skeleton dance” del 1929) e Woody Allen (“Love and death” del 1975), nonché ovviamente al finale del capolavoro di Bergman, “Det sjunde inseglet” (“Il settimo sigillo” del 1957). Il concetto di morte come terrore supremo viene dunque sdoganato; secoli di arte e filosofia hanno raggiunto quella che è forse una delle verità più profonde dell’esistenza: il senso della vita è comprendere la morte, sentirsi in pace con essa senza paure e senza rimpianti. E magari farci un giro di danza. 


mercoledì 6 novembre 2013

Un bel silenzio non fu mai scritto









Alla fine ho dovuto constatarlo e arrendermi all’evidente: la cultura fa tendenza. E come tutte le mode, tende a diventare una direzione ottusa e obbligata, anche quando si presenta “ostinata e contraria” – sublime paradosso dell’imbottigliamento convenzionale di una frivolezza mascherata da ribellione. Tendenza, appunto.

Il punto è che gli ierofanti della “cultura” – termine che mi sta sempre più spesso venendo a nausea – nel loro vaneggiare vano e vanesio procurano più danni di due ore di televisione o di un quarto d’ora di social network. Il tutto perché risultano sempre più spesso forieri di quell’erudizione sterile che è a sua volta terreno fertile di ignoranza. In una statistica media quotidiana, nove delle dieci persone che intorno a noi cianciano di cultura dovrebbero stare zitte. Dovrebbero azzittirsi i citazionisti, i tuttologi, gli esperti, i professionisti, quelli che “si interessano”, che “sono appassionati”, quelli che hanno studiato. Dovrebbero azzittirsi perché tra loro c’è inevitabilmente chi ha passato tutta una vita a leggere senza mai osservare il cielo, così come c’è chi ha passato la vita a osservare il cielo senza mai leggere; c’è chi si laurea e in base a questo esclusivo motivo si ritiene in grado di saper parlare, scrivere o esprimere un pensiero (e, a volte, addirittura di pensare); c’è chi fa critica letteraria – la vendetta di chi non è in grado di narrare – senza prima essere critico di se stesso, oppure quelle stucchevoli persone che con la cultura si inebriano parnassianamente e sentono la loro anima elevarsi; e infine gli ignoranti per eccellenza, vale a dire quelli che quando guardano un’opera d’arte ne cercano spietatamente il significato didascalico, come se un quadro o una statua stessero lì in attesa di essere tradotti dai vari autoctoni monoglotti che li frequentano.

No, mi spiace, ma la cultura non è questo. Innanzitutto, la cultura non è un fatto istituzionale, dunque non si può apprenderlo dallo Stato in nessuna forma, ma la si riceve unicamente da se stessi. Se poi si è disposti a recepirla, questa è una cosa che dipende dalle nostre corde (dal latino cor, cordis, “cuore”) più intime, involontarie e incoscienti: a quanto pare, la parabola del talento nasconde un fondo di verità.

E d’altro canto non si possono usare i libri come appigli a cui reggersi brancolando nel buio. Il libro è una rivoluzione tutta interna, sanguigna, uno scoprire e ritrovare se stessi nelle parole di un tizio lontano nel tempo e nello spazio: è per questo che in realtà non siamo noi a leggere i libri, ma sono i libri che leggono noi.

La cultura andatela a frequentare nei musei e nei teatri, che sono (a dimostrazione di quanto detto prima) organi di Stato, ma una volta lì dentro ribellatevi a questa dittatura informativa e stazionate ore davanti a un’opera d’arte, senza per forza dover ritrovare quello che i manuali vi indicano ci sia. Guardatela, parlateci, sentitela. Imparate a chiedervi il perché senza volere veramente una risposta, come fanno i bambini. Immaginate l’artista che l’ha realizzata e domandatevi cosa avrà mangiato il giorno in cui l’ha iniziata o se è sceso a fare una passeggiato quando l’ha completata; sentitevelo amico, quell’artista, perché era carne e ossa, e l’opera d’arte che avete davanti l’ha fatta per voi.

Siate infantili con la cultura: imparate a sognarla, vivetela come un modo per colorarvi, per darvi un senso. Che sia il vostro castello immaginario nel quale ritrovare le vostre personali voci di dentro. Imparate, soprattutto, a imparare. Tutti sono capaci di dire e professare, ma pochi sono in grado di apprendere: questi pochi si chiamano saggi, e sono (a volte) le uniche persone veramente felici di questa terra.

La cultura è un gioco intimo, del tutto privato e silente, anche se questo non vuol dire essere soli.

Cultura è scambiarsi un libro all’interno di una biblioteca, immersi in un impenetrabile, religioso silenzio. Non perché non ci sia nulla da dire ma perché c’è tanto da ascoltare.

mercoledì 9 ottobre 2013

MusicAttiva 2013





Mi piacerebbe poter inserire, prima di queste righe, l’intero articolo che ho scritto esattamente un anno fa su questa rivista e riguardante MusicAttiva e i ragazzi del Laboratorio Creattivo. Che tuttavia si può recuperare sul sito www.portalecittadino.it.
Perché dico questo? Semplicemente perché in quell’articolo sottolineavo l’ottimo – a mio avviso – lavoro svolto dal Laboratorio nel corso del tempo, mantenendo alti i loro standard in tutte le edizioni di MusicAttiva (sempre ricordando che il loro lavoro e gli eventi organizzati non si limitano esclusivamente a questo evento), nonché il valore che hanno le loro manifestazioni il cui scopo è non solo quello di intrattenere ma di porgere un’offerta culturale sicuramente notevole e tra le migliori che si hanno nel nostro paese.
L’edizione di quest’anno, giunta al settimo appuntamento, ha dato spazio al progetto “Ballads Duo”, composto da Francesco Di Bella dei 24 Grana e Alfonso Bruno, i quali lo scorso 9 luglio hanno aperto il concerto di Manu Chao a Napoli, mentre invece in questa occasione loro erano la portata principale di un evento che è stato a sua volta aperto (ma anche chiuso, a gran richiesta dal pubblico) da “il cerchio del pozzo”, cover band di De André che il CittadinoNews ha intervistato qualche mese fa e che si è generosamente concessa fino all’ultimo, quasi come se non si volesse permettere la fine di quella serata così coinvolgente. Del “Ballads Duo” ne parla lo stesso Francesco nell’intervista che ci ha concesso: rimandiamo quindi alle sue stesse parole la possibilità di approfondire l’argomento. Il progetto è stato tuttavia, agli occhi e le orecchie di chi scrive, un lavoro molto interessante di comunicazione musicale: appartiene a quel settore cantautoriale più intimo e discreto, quello costituito da una voce e una chitarra. Quello che in una maniera quasi psicologica conduce più facilmente all’introspezione, all’indagine di sé. E io credo che più di uno spettatore quella sera abbia per un momento trattenuto il fiato, dimenticando perfino la persona che sedeva accanto a lui, e si sia abbandonato a sé stesso in un dialogo senza parole. Ancora una volta, la musica ha compiuto il suo miracolo e se ne siamo stati partecipi lo dobbiamo al Laboratorio Creattivo, da sempre particolarmente attento nella scelta di eventi con tale qualità. Perfino un blackout – accaduto durante il concerto dei due musicisti e che ha oscurato buona parte del paese – sembrava fatto apposta per sottolineare l’atmosfera profonda e nascosta della serata. Sembrava, ma non è così: speriamo solo che intoppi del genere non capitino più.
Ma la serata non è stata solo un più che gradevole appuntamento musicale: in una giusta sinergia di intenti, a supportare e ampliare la manifestazione ci ha pensato una collettiva artistica dal titolo “Ai poster l’ardua sentenza”, ideata da Annalisa Mandarino e alla quale hanno partecipato grafici e artisti non solo della provincia, ma anche di Napoli e perfino di Milano. Lo scopo dell’iniziativa è stato quello di creare un’esibizione temporanea il cui termine sarà dettato dal tempo stesso, vale a dire quando l’usura o qualche altro motivo cancelleranno questo lavoro, esattamente come succede a poster e manifesti veri e propri, che nell’ambito di uno scenario urbano completano il paesaggio con il loro continuo divenire altro da sé e da ciò per cui erano stati inizialmente creati. Accanto a questa interessante iniziativa c’è stata inoltre quella organizzata da Amalia Arminio di allestire un mercatino dell’usato, un’abitudine che sta prendendo sempre più piede nella grandi città (un po’ per il fascino del vintage, un po’ perché è un modo come un altro per combattere la crisi).
Iniziative e persone si spalleggiano l’un l’altra, dunque, come del resto è giusto che sia soprattutto in uno scenario relativamente piccolo come Montecorvino: è davvero importante per questo paese puntare sulla comunione di intenti, perché lasciare che tante intelligenze locali restino isolate tra di loro non fa altro che indebolire ulteriormente le risorse qualitative già limitate che abbiamo.

venerdì 2 agosto 2013

Macario, fatti da parte

Il grande higlight comico del secolo. 



L'esercito delle 12 scimmie è infinitamente più intelligente.

domenica 28 luglio 2013

La bellezza e l'inferno

E poi esce dal lounge bar, quello riservato alla stampa e agli ospiti.
Anzi, per la precisazione esce prima un addetto alla sicurezza, poi uno della sua scorta. E poi un altro. E un altro ancora. Ci guardano impassibili da dietro gli occhiali da sole.
E infine lui.
Giacca blu scuro e camicia intonata. Saluta con la testa lievemente abbassata, ma gli occhi guardano avanti. Guardano noi.
"Grazie per questo miracolo che è Giffoni. E grazie per i vostri occhi", dirà da lì a un'ora a un'intera platea di ragazzi. E' stata tutta un'osservazione reciproca, noi con lui e lui con noi.
Noi che stiamo lì e lo aspettavamo, noi che quasi non ci crediamo vedendolo. Noi e le nostre foto e videocamere che fino a qualche minuto fa fremevano nell’afa di un attesa che sembrava spasmodica (e invece il suo arrivo è stato addirittura in anticipo) come quella di un bambino alle 23:30 del 24 dicembre e che adesso sembrano imbarazzarsi davanti a lui non sapendo che fare.
Ma lui ci sorride, di un sorriso sfuggente e riservato. Dolce.
E ci disarma, quasi. Potesse farlo davvero, non avrebbe più problemi né quella costellazione di guardie del corpo che gli orbitano intorno.
Farà davvero il blue carpet? Si, a quanto pare si.
E non solo. Si ferma. Firma autografi. Saluta, ma non come un divo. Come una persona che hai lasciato la sera prima dopo una birra insieme. Si concede in una umanità talmente genuina che le persone stesse sembrano imbarazzate
E’ Saviano. Roberto Saviano.
Avanza con intorno le body guards di una vita, quella vita che condividono e condivideranno con lui. Come si fa a guardarlo e non vedere dietro di lui il peso, l’onere e l’onore di una condizione tanto nota, tanto chiacchierata, tanto giusta ma allo stesso tempo tanto ingiusta? Lo vedo e resto talmente inerme che mi si smonta pure il disprezzo che porto verso Emilio Fede quando in tv diceva che “l’Italia non ha bisogno di lui”.
Mi viene da pensare a Benigni, quando in “vieni via con me” invitava le persone a volergli bene, non fosse per altro che per questa vita tutta programmata e meticolosamente studiata a tavolino che è costretto a fare. Lo guardo, e mi viene voglia di volergli bene.
Lo guardo, e il critico instancabile che è in me si chiede se c’è del divismo in lui.
Per la cronaca, no, non c’è.
Davanti a me c’è un uomo che saluta e firma autografi senza ostentarsi. C’è un uomo e tutto quello che ha scritto o detto, le cose che ha scomodato, i meccanismi in cui si è inserito.
Ma non importa tanto quello che ho davanti, quanto quello che ho dentro. E cosa ho dentro è difficile da raccontare. E’ un momento vuoto ma allo stesso tempo pieno; qualcosa che ha a che fare con il rispetto, sicuramente.
Ma non il rispetto mafioso. Non il rispetto che proiettano sugli schermi e ci raccontano con insulse soap opera. Non è il rispetto dei capoclan, quello nel cui mito crescono tanti ignari ragazzi i cui cervelli vengono strappati dal pensare e alle loro braccia viene chiesto di distruggere invece di creare.
E’ invece un rispetto puro, quello che si offre a qualcuno perché semplicemente ne desideri la felicità. Ne riconosci il valore, ma non perché imposto: perché sei tu che vuoi lo abbia. Sei tu a caricarlo di significato, perché il rispetto più aureo è quello che tu dai spontaneamente, non quello che ti viene chiesto di dare.
Ecco, Saviano è questo. E’ rispetto vero. Il rispetto che ha il padre verso il figlio, quello che ha l’amante verso la persona amata. Quello che ha il vento verso un fiore o che Pasolini aveva verso l’essere umano.
E Saviano, con quello che è e quello che ha fatto, insegna a tutti noi che questo rispetto è migliore di quello mafioso.
Saviano è più forte della mafia.



P.S. A chiusura dell’articolo, devo confessare che alla fine su Emilio Fede ho cambiato di nuovo opinione. Preferisco continuare a disprezzarlo.

venerdì 19 luglio 2013

Giffoni Film Festival, i giochi sono aperti





Vivere il Giffoni Film Festival non è facile. Anzi è facile. Anzi, è un po’ l’uno e un po’ l’altro. Come quando un bambino prova a misurarsi con il mondo degli adulti. E’ tutto così grande e a tratti così sfuggente, però inevitabilmente quel tutto viene ridotto ai minimi termini, fatto a pezzettini dall’enorme schiacciasassi che è la fantasia dei piccoli.

Il Festival è una strada ai cui estremi c’è rispettivamente un adulto e un ragazzo. Il senso del festival è invece portare quell’adulto e quel ragazzo al centro della strada, con l’uno che viene incontro all’altro.

L’idea che si percepisce stando lì e proprio quella. Di incontro. Di discussione. Di confronto tra generazioni.



Io credo che un giornalista mandato lì per raccontare il festival prima o poi si scontrerà con quell’inevitabile pensiero che ti porta a notare il fermento, il brulicare di un microcosmo che si agita e ride nella Cittadella del cinema, ma che ritrova anche angoli più tranquilli e ugualmente stimolanti quali la Sala Lumière, il Convento di San Francesco o ancora le Antiche ramiere, posto assolutamente delizioso oggi ancora in parziale allestimento ma da domani già meta e cuore pulsante di interessanti incontri e mostre.

Ci sono dunque altri festival all’interno del festival, altri scenari, altre sfumature, altre visioni.



E’ questo il caleidoscopico mondo dei ragazzi, che smerigliano la realtà frazionandola in tanti aspetti diversi.

Certo, molto meno poeticamente possiamo dire che non è altro che una buona macchina organizzativa che, intendendo bene il suo lavoro, ha ben pensato di distribuire eventi ed energie in maniera sparsa per il paese, pensando alle esigenze di tutti – grandi, piccoli, fan, semplici interessati, fedelissimi del cinema, amanti della televisione, frequentatori di mostre e amanti dell’enogastronomia – in modo da far sedere sulle sue poltrone quante più persone possibile. Potremmo dirlo, e forse diremmo una verità più reale di altre.

Ma oggi – almeno per un giorno – preferisco che a vincere, una volta tanto, sia la fantasia, l’allegria anarchica dei bambini, il sogno e il fanciullo bisogno di illudersi.