Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

martedì 16 dicembre 2014

Benigni 0.0




(Vignetta di Stefano Disegni tratta dal suo sito stefanodisegni.it)


Dante. Vabbè, Dante ci sta perché Benigni è fiorentino come lui, perché Dante è sempre attuale, perché le lecturae Dantis si sono sempre fatte. Andata.
Poi la Costituzione italiana. Il collegamento si fa con più fatica, ma Benigni dopo “La vita è bella” ha iniziato a essere un monumento nazionale intoccabile, e quindi pure lo facciamo passare. D’altronde, diffondere i dettami della legge italiana è un gesto civico e civile e alla fine poco importa chi lo fa, l’importante è farlo.
Sull’inno di Mameli qualcosa già traballa. Non perché illustrarlo sia meno civile che spiegare la Costituzione, ma perché ci si inizia a chiedere quale sia il collegamento tra Benigni e l’inno, e la domanda che silenziosamente serpeggia è: “ma non è che si sta provando a raschiare il fondo del barile solo per mettere in croce due puntate di puro share?”. Domanda la cui risposta è in parte ovvia e lecita; la si accetta però questo vago senso di forzatura rimane.
E infine (per adesso) i Dieci Comandamenti. E allora lì uno pensa che quando si divulga un messaggio etico va comunque bene, però c’è modo e modo; e il modo in questo caso presupporrebbe una messa in scena da parte di qualcuno che ha maggiori credenziali in merito: un rappresentante della Chiesa, magari, o quantomeno uno studioso della Bibbia.
Benigni invece non è né l’uno né l’altro, e di questo l’interpretazione ne risente. Perché il grande difetto e il senso di fondo che rimane della sua lettura/spiegazione è che tutto viene assurdamente incastrato in una morale che sostanzialmente di religioso o biblico non ha niente, ma è invece rivisto sotto un’ottica che si vuole necessariamente super partes e buona per tutti.
Chiunque abbia letto interamente la Bibbia, infatti, sa che i testi sacri del Vecchio Testamento sono un capolavoro letterario che però – come tutti i libri storici – va inserito nel suo contesto e nel suo tempo. Non si può dire che nell’espressione “io sono il Signore Dio tuo” quel “tuo” vuole intendere un rapporto di possesso da parte di chi riceve la legge (“questo regalo è tuo”). Mi spiace, ma è una forzatura buona appunto per edulcorare determinate sfumature del dio veterotestamentario che inevitabilmente cozzano con l’immagine di amore universale presenti invece solo nei Vangeli del Nuovo Testamento. Il Dio di Noè, Abramo, Mosè è un dio severo, punitivo, rigido, che dispone ordini precisi ai quali il popolo d’Israele deve attenersi. Il “tuo” di quel comandamento indica chiaramente che si deve appartenere a Lui e – appunto – non si avrà altro dio all’infuori di Lui. Esiste un preciso rapporto di filiazione che connota le caratteristiche di Yahweh nei confronti del suo popolo e che va letto e rispettato nella sua forma originaria, non manipolato a piacimento solo per renderlo attuale o. più precisamente, per riempire adeguatamente lo share di due serate sul canale principale della rete nazionale.
E ce ne sono altri, di momenti del genere. Come ad esempio l’interpretazione cattocomunista/cattoanimalista/cattoambientalista del terzo comandamento, quello che i Padri della Chiesa – a loro volta manipolando ciò che era scritto nella Bibbia ebraica – hanno reso con “ricordati di santificare le feste”, e che nella sua stesura originale era la sanzione dello Shabbat, il giorno in cui gli Ebrei osservanti non devono lavorare o compiere atti.
Ma iniziare ad appuntare tutti gli errori, le imprecisioni, le contraddizioni e le forzature che Benigni ha inserito nel suo spettacolo potrebbe rivelarsi un esercizio alquanto sterile e – per me – noioso.
Viene da chiedersi se questo panteismo ricolmo di amore hippy e stantio buonismo che Benigni sta propinando come corretta lettura dei testi sacri sarà interrotto dal racconto di ciò che succede subito dopo che Mosè ha ricevuto i comandamenti da Dio e si presenta al popolo d’Israele dicendo:

“Quando il Signore tuo Dio (a proposito dell’aggettivo “tuo”, N.d.A) ti avrà introdotto nel paese che vai a prendere in possesso e ne avrà scacciate davanti a te molte nazioni: gli Hittiti, i Gergesi, gli Amorrei, i Perizziti, gli Evei, i Cananei ei Gebusei, sette nazioni più grandi e più potenti di te, quando il Signore tuo Dio le avrà messe in tuo potere e tu le avrai sconfitte, le voterai allo sterminio; non farai con esse alleanza né farai loro grazia. Non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me, per farli servire a dei stranieri, e l’ira del Signore si accenderebbe contro di voi e ben presto vi distruggerebbe.
Ma voi vi comporterete con loro così: demolirete i loro altari, spezzerete le loro stele, taglierete i loro pali sacri, brucerete nel fuoco i loro idoli. Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra…”

(Deuteronomio, paragrafo 7, versetti 1-7)

Perché appunto, come dicevo, il dio del Vecchio Testamento è un dio irascibile e vendicativo, il che letto oggi non significa voler denigrare gli insegnamenti della Bibbia, ma saperli contestualizzare, accettandoli nelle loro contraddizioni perché la Bibbia non è un testo da cui prendere ma da cui apprendere, così come oggi leggiamo la Storia anche nelle sue brutture e nei suoi orrori affinché oggi, apprendendo da essa, non vengano più ripetuti. Benigni con questo spettacolo sta appunto facendo un lavoro di (pessimo) revisionismo storico, piegando fatti e condizioni del passato alla logica dei nostri tempi, contorcendo la verità, frullandola, spezzettandola e tritandola in modo da soddisfare i palati nazionali in uno sbadigliante e sonnacchioso dopocena borghese.

Non sto qui a rimpiangere il Benigni del Cioni, quello del “Pap’occhio” o quello dello spettacolo “Tuttobenigni 95/96” che a differenza di quello di oggi sapeva come maneggiare con ironia e intelligenza i dogmi della Chiesa, né tantomeno a sindacare sul suo compenso (cari amici del M5S, le vostre polemiche non mi interessano); sto parlando esclusivamente di una corretta e giusta divulgazione culturale, che nello spettacolo è sostanzialmente assente.
Che Benigni volesse una tiara in testa si era abbondantemente capito dai tempi di “Pinocchio”. Stava preparando il terreno per un “Benigni 2.0”, moderno, pulito, gioviale, e che si aggrappava a una simpatia tosco-contadina tutta gestuale e sgambettante: un Renzi dello spettacolo, insomma. Ma quello di ieri sera non era neanche il 2.0, era lo 0.0: Benigni è andato a ritroso, a metà tra un Paolo Brosio e un Giorgio Panariello, bambino meravigliato di tutto che si stupisce della profonda poesia di ogni singola parola o concetto (“ma questa è una cosa strepitosa…!”) ma – precisiamo – non è né il fanciullino di Pascoli né il Pinocchio di Bene: è solo una persona che avrebbe tanto da imparare. Il che sarebbe una cosa buona, del resto, se non fosse che però sta in cattedra.
Benigni (spettro di Renzi, che si aggira per l’Italia) metafora nazionale. 



Nota personale: che tristezza sentirlo parlare di Carlo Marx, arrivato secondo dopo Dio, senza più l’acume satirico di una volta, e che tristezza (mista a una puntina di rabbia) sentirgli dire, parlando del terzo comandamento, “altro che sessantotto!” (sic). Nel giorno in cui, tra l’altro, si ricorda la morte di Pinelli e, volendo, quella di Toro Seduto.

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