Nel mio
mestiere di studioso (essendo io cosciente del fatto che al giorno d’oggi non è
quasi più un mestiere ma non per questo meno orgoglioso di rivendicarmi come
tale) mi sono da sempre autoimposto una regola ben precisa, e cioè che il ruolo
implichi la conoscenza del visibile e l’intuizione di ciò che è nascosto
(ricordando sempre però che, come diceva Wilde, il vero mistero della vita non
è l’invisibile, bensì il visibile). Mai dogma fu più utile, soprattutto
nell’analisi del simbolo, che da tempo è oggetto di studi e interessi
personali.
Studiare la
natura del simbolo vuol dire imboccare una strada che quanto più ti introduce
al suo interno, tanto più si dirama. Il simbolo è un artefatto dalle proprietà
fortemente trascendenti all’uomo. E’, a mio avviso, uno di quei prodotti
dell’intelletto umano capace di svellersi da ogni stretto controllo di
quest’ultimo e riuscire persino a sovrastarlo. I simboli sono creazioni umane,
ma migliaia e milioni sono le persone che nel corso della Storia si sono poste
sotto di loro. Essi hanno guidato guerre, rovesciato Stati, illuso o infiammato
popoli interi. Il simbolo infonde coraggio, stabilisce dei credo, si impone
sugli altri. Valga su tutti, fra le miriadi di esempi, quell’ in hoc signo vinces che ha deciso le
sorti e il futuro (storico e religioso) di un impero quale quello di Roma. E’
con il segno che si vince. Non con le armi, non con il numero di soldati. E’ la
forza del segno che stabilisce il destino di un’impresa. C’è veramente molto da
riflettere su questo episodio e sul suo significato: pare segni quasi la
nascita della belligeranza tattica.
Il simbolo ha poi una caratteristica
fondamentale che a questo mondo sono davvero poche le cose che la condividono:
perdura senza sosta. Sopravvive all’uomo e al tempo stesso. Forse è per questo
che l’uomo, intuendo inconsciamente questa sua eternità, trova così facile
sottomettersi a lui.
Attenzione: è
importante fare le dovute distinzioni. Il simbolo non è icona né bandiera né
logo (per adattarci ai nostri tempi). Lo si capisce dal fatto che mentre queste
ultime sono espressioni a cui viene dato credito e forza, il simbolo opera
attraverso un delicato ma preciso meccanismo socio-culturale (ed anche in parte
esoterico) che la forza la genera. Dunque nel rapporto tra lui e l’uomo egli ha
parte attiva e il secondo passiva, o meglio, ricettiva. Ma questo rapporto,
continuato nel tempo, non rimane impari, perché a un certo punto l’uomo, arrivando
a comprenderne la natura più intima, si identifica con esso e i due si
equivalgono.
La natura
formale del simbolo lo vede soprattutto nelle vesti di un segno. Antropologicamente
parlando, infatti, il segno è la prima e immediata espressione umana. Qualsiasi
libro di storia dell’arte nelle sue prime pagine riporta le pitture rupestri
degli uomini primitivi – e fa bene a farlo –. Tuttavia c’è da tenere presente
che esse non sono rappresentazioni ma segni. Questo perché la rappresentazione
è sempre una mimesi (anche l’astrattismo lo è: quella del concetto), il segno
invece è un identificativo. In quelle pitture, così primordiali eppure – si
noti – così potenti, c’è molto di più che una traccia di sé: c’è un’istruzione,
un credo, una forza. Come se dicessero “questo siamo, questo è ciò che
facciamo”. Ed è talmente vera questa condizione che l’essere umano l’ha
trascinata con sé attraverso le grandi civiltà orientali, poi in quella
egiziana e finanche quella greca. E’ anzi maggiormente emblematico che la
civiltà greca, così artistica di natura, abbia virato verso l’attenzione
anatomica solo in un momento avanzato della sua storia. E il tutto
assolutamente non dovuto per un miglioramento di abilità, ma per una precisa
scelta sociale. Già Bianchi Bandinelli, infatti, faceva notare che gli artisti
greci fossero in grado di ritrarre le persone in maniera fisiognomica
(caratteristica che apparterrà soprattutto a Roma), ma che non fossero
interessati a farlo, perché la loro arte puntava a scopi diversi.
Il simbolo/segno
dunque ha perdurato a lungo nella manifattura umana e nel suo animo ha covato e
lasciato le spore che oggi ci rende antropologicamente più familiare quel
rapporto tra noi e lui di cui dicevo prima.
Esso è dunque
una forza in potenza che comunica e istruisce. E’ un percorso che, come una
scatola cinese, nasconde un significante dentro un significato e via così, fin
quando, giunto al limite ultimo, si rivela in tutta la sua completezza.
Altra
caratteristica fondamentale del simbolo, nonché secondo punto di forza, è la
sua innata polivalenza. Un simbolo non è mai un’indicazione univoca.
Esattamente come ho detto prima, è un percorso e una matrioska che si offre in diversi stadi di conoscenza. E’ un
incrocio, un crocevia di sensi. Collega l’alto con il basso, l’Oriente
all’Occidente, il rivelato con il nascosto. Si pensi ad alcuni dei grandi
simboli sociali della Storia: la croce cristiana, la svastica (la intendo qui
nella sua accezione nazista), la falce e il martello comunista. Notiamo come siano
tutti simboli “di massa” (gli stessi sotto i quali si pongono gli uomini di cui
parlavo sopra) e tutti contengono un’intersezione, perché essa esprime forza,
unione, potenza e inviolabilità. Mi sembra qui superfluo nominare lo stesso
incrocio presente tra compasso e squadra. E’ questo un gioco mistico e sociale
che fa leva (e quindi proseliti) sugli istinti ricettivi primari dell’uomo. Si
noti, inoltre, come anche qui venga rispettata la natura ultima del simbolo, in
quanto alla fine l’uomo asservitosi ad esso si identifica con quello. Ma con la
differenza fondamentale che mentre qui si tratta di una tacita assuefazione per
fede, in altri casi, come quello della Massoneria, il simbolo stesso chiede di
essere interrogato, poi colto e solo dopo che sia stato fatto proprio (cioè
quado il Massone ha preso padronanza di esso) si esplica nella sua natura
identificativa.
C’è
poi da rilevare l’aspetto polifunzionale del ruolo che ha all’interno del
percorso massonico. Esso si pone contemporaneamente come un qualcosa dal quale
apprendere e farsi guidare, ma, approfondendo la sua conoscenza, diventa un
qualcosa al quale dare e darsi. Il simbolo ha poi il vantaggio di essere allo
stesso tempo segreto ed aperto. Chi non ha occhi giusti per vederlo, ne
percepirà sempre solo ed esclusivamente l’aspetto formale ma non eidetico.
Confacendosi quindi ai dettami della Loggia, il simbolo è una mano chiusa a
pugno: tiene, trattiene, racchiude, conserva, nasconde ma allo stesso tempo è
in potenza un qualcosa che si schiude, si apre, mostra, rivela ed accoglie.
Irène
Mainguy, in un’opera di mirabile completezza (almeno per i profani) quale “la
Simbolica Massonica del Terzo Millenio”, nel riferire l’etimologia di “simbolo”
omette un particolare che io trovo fondamentale. Riportando la natale parola
greca symbolon, non ne offre
l’origine più pura che è quella di syn (“con”,
“insieme”) più il verbo ballo (“lancio” ma anche “pongo”),
ottenendo così un’espressione che vuol dire “metto insieme”. Ecco dunque che
fin nella sua natura più primeva il simbolo si presenta come un legamento di
concetti.
Lo sa bene,
appunto, la tradizione massonica che non a caso si fonda sull’interazione con i
simboli e da simboli stessi è completamente circondata. E non c’è assolutamente
bisogno di essere sognatori o romantici per poter comprendere che la forza
della sua perpetuità – nonché dei suoi riti – è dovuta soprattutto ad essi.
Quello del
massone è un cammino che arriva tanto lontano, ed è fatto tanto bene proprio
grazie ad una scelta estremamente oculata dei suoi simboli. Anche il profano
non può che rimanere affascinato dalla precisa perfezione della corrispondenza
simbolica: si pensi, ad esempio, all’uso dei numeri, in particolare al tre.
Riti, segni, e momenti che in maniera minore o maggiore ritornano nelle varie
logge sotto numero di tre. Toccamenti, gerarchie e strutture
che si stabilizzano nella triade, dove la triade stessa si identifica
nell’ideale “inizio – mezzo – fine” che a sua volta postula l’idea della medias res sia quale punto di giusto
equilibrio tra le cose sia come momento di continenza, ma allo stesso tempo
anche momento di svolta e cambiamento.
Tre
sono inoltre i punti necessari per creare la prima figura geometrica, posta tra
i due punti della linea (continua e infinita) e il numero sempre maggiore di
punti che di volta in volta crea forme diverse sino ad autoconcludersi nella
forma finale che è il cerchio. La forma che si ottiene con il minor numero di
punti possibili atti a creare una figura è dunque il triangolo, primo grande
testimone della mente scientifica dell’uomo, nonché viatico principale di uno
dei grandi iniziati quale fu Pitagora. E a riprova di quanto ho detto
all’inizio, da questo punto il concetto prende a diramarsi. Infatti, da un
“lato” (mi si scusi il gioco di parole) il triangolo lo si ritrova tanto nelle
prime operazioni geometriche quanto in quelle più complesse, fino a raggiungere
perfino le sue applicazioni nell’architettura (e invito ancora a riflettere su
quanto di quello che sto dicendo si ritrovi nella Massoneria): chiunque infatti
abbia studiato i primi rudimenti di questa scienza conoscerà senz’altro il
metodo della trilaterazione (e quello della triangolazione), un metodo che
prevede l’utilizzo di una serie di triangoli per riuscire a stabilire con
massima esattezza la determinata posizione di un punto nello spazio. Ma da un
altro lato il triangolo trova una sua differente interpretazione sotto la forma
alfabetica di delta greco. E qui si
apre un nuovo orizzonte semantico. Il delta è una delle poche lettere
dell’alfabeto (se non l’unica, volendo non essere estremamente puntigliosi) a
non aver mai subito modifiche tra i vari alfabeti greci (si tenga presente che,
prima di una definitiva adozione a livello nazionale dei caratteri milesi –
quelli che oggi si studiano nei licei –
avvenuta nel 403/402 a. C., ogni regione della Grecia aveva un suo
diverso alfabeto che presentava forme più o meno differenti di una stessa lettera).
Non è da sottovalutare questa “casuale” coerenza idiomatica (e uno studioso sa
che nel corso della Storia, quasi nulla è dovuto al caso). Delta è poi
l’iniziale del nome del padre degli dei Zeus, ma, sempre “casualmente” è anche
il nome che ha etimologicamente dato vita al termine “deus”, diventato poi
“dio” e realizzatosi nell’identificativo “Dio” per indicare il Signore dei
cristiani. La declinazione di Zeus, infatti, si completa appunto con il termine
“Diòs” nei casi genitivo, dativo e accusativo.
E
ancora ci sarebbe da dire sul triangolo come forma artistica ed architettonica,
quali le piramidi, oppure meglio ancora la forma triangolare con cui vengono
costruite le statue dedaliche durante l’arcaismo greco, che appunto struttura
l’uomo a gruppi di triangoli (busto, testa e capigliatura che richiama quasi
sempre il “klaft” egizio).
Ecco
come il simbolo si mimetizza, cambia pelle, si nasconde e rivela a tratti
alterni; assume diverse sembianze e calza sfumature. Sotto questo punto di
vista, per alcuni aspetti l’intera storia dell’arte è storia del simbolo
rappresentato. Perfino il paesaggismo inglese del ‘700, che può sembrare un
genere superficialmente banale, nasconde il simbolo di un qualcosa dietro. E’
semplicemente più steso e più diluito rispetto ad altri momenti. Nel movimento
simbolista trova una sua espressione più diretta, ma una mente critica non può
non riconoscere tale espressione anche nelle forme di Michelangelo, così come,
andando più indietro, la si vede negli attributi degli dei (uno fra i tanti, il
melograno, sacro a Persefone, che ancora una volta ritroviamo nella simbolica
massonica).
Giungiamo
a questo punto ad un’ultima capitolazione. Il simbolo è anche parola. La parola
intesa come codice, come sequenza di lettere. La sua affermazione più forte in
tal senso è l’acronimo (accanto al suo fratello più letterario acrostico).
Anche in questo campo la Massoneria è ben preparata, basti pensare all’uso
delle lettere iniziali in una titolatura. O ancora in esempi come
“V.I.T.R.I.O.L.” che trovo particolarmente interessante perché è uno di quei
casi in cui l’acronimo diviene quasi parola a senso compiuto e oltre ad essa si
tramuta in suono, dimostrandoci infine che il simbolo può anche essere fonè.
Sul
ruolo del simbolo/parola ci sarebbe tanto altro da dire, ma è pur giusto non
divagare ulteriormente in un argomento che è di per sé paurosamente vasto. Ma
sul rapporto tra parola/simbolo e simbolo/Massoneria, vorrei segnalare
un’interessante esempio che è allo stesso tempo un’affascinante disquisizione.
Si tratta della prima strofa di “Corrispondenze”, poesia tratta da “I fiori del
male” di Baudelaire. Che io sappia, in nessun testo né saggio – di letteratura
o sulla Massoneria – è riportata la considerazione che mi accingo a presentare.
La mia umiltà mi porta a ritenere che questa assenza sia dovuta al fatto di non
esserci mai stato motivo nel segnalarla, ma d’altra parte la ritengo un passo
troppo stimolante per lasciarla completamente al caso. I versi recitano così:
“La Nature est un
temple où de vivants piliers
Laissent perfois sortir de confuses paroles;
L’homme y passe à travers des forêts de symboles
Qui l’observent avec des regards familiers”
“E’ un tempio la
Natura, dove a volte parole
escono confuse da
viventi pilastri;
e l’uomo l’attraversa
tra foreste di simboli
che gli lanciano
occhiate familiari”
Io
credo che qualsiasi Fratello sia in grado di riconoscere in ogni singolo verso
un riferimento più o meno esplicito. E’, a mio avviso, abbastanza immediato
pensare, nel primo verso, al Tempio di Salomone, tanto più che nello stesso
rigo (in originale) si parla di “pilastri” identificati come “viventi”. Come
non pensare, dunque, ai due pilastri di una Loggia riportanti le lettere J e B
e quindi in un certo senso “parlanti”?
Abbiamo
poi un “uomo che attraversa una foresta di simboli” che io individuerei nella
marcia dell’affiliato. Sulla “foresta di simboli” mi sembra superfluo
disquisire per quanto sia didascalica come immagine. Notiamo, in ultimo, che
suddetti simboli “lanciano occhiate familiari” e qui è ugualmente facile
immaginare uno dei simboli più forti e comunicativi, quello dell’occhio
centrato della conoscenza.
Come
dicevo sopra, si tratta di una mia riflessione personale che non si basa su
teorie precedenti e dunque mi limito soltanto ad offrirla come curiosità
intellettuale, ma da semplice profano sono felice di consegnarla a quanti che,
partecipi e protagonisti della materia, possono maggiormente apprezzarla.
Mi
sembra giusto concludere, così come è stato per l’inizio, questo articolo
citando nuovamente Wilde, che provvidenziale e illuminante come sempre, ci
ricorda che “l’Arte è un simbolo perché l’Uomo è un simbolo”. Ora tocca a noi
trarre le conclusioni.