Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

mercoledì 27 giugno 2012

Sulla natura del simbolo




Nel mio mestiere di studioso (essendo io cosciente del fatto che al giorno d’oggi non è quasi più un mestiere ma non per questo meno orgoglioso di rivendicarmi come tale) mi sono da sempre autoimposto una regola ben precisa, e cioè che il ruolo implichi la conoscenza del visibile e l’intuizione di ciò che è nascosto (ricordando sempre però che, come diceva Wilde, il vero mistero della vita non è l’invisibile, bensì il visibile). Mai dogma fu più utile, soprattutto nell’analisi del simbolo, che da tempo è oggetto di studi e interessi personali.
Studiare la natura del simbolo vuol dire imboccare una strada che quanto più ti introduce al suo interno, tanto più si dirama. Il simbolo è un artefatto dalle proprietà fortemente trascendenti all’uomo. E’, a mio avviso, uno di quei prodotti dell’intelletto umano capace di svellersi da ogni stretto controllo di quest’ultimo e riuscire persino a sovrastarlo. I simboli sono creazioni umane, ma migliaia e milioni sono le persone che nel corso della Storia si sono poste sotto di loro. Essi hanno guidato guerre, rovesciato Stati, illuso o infiammato popoli interi. Il simbolo infonde coraggio, stabilisce dei credo, si impone sugli altri. Valga su tutti, fra le miriadi di esempi, quell’ in hoc signo vinces che ha deciso le sorti e il futuro (storico e religioso) di un impero quale quello di Roma. E’ con il segno che si vince. Non con le armi, non con il numero di soldati. E’ la forza del segno che stabilisce il destino di un’impresa. C’è veramente molto da riflettere su questo episodio e sul suo significato: pare segni quasi la nascita della belligeranza tattica.
 Il simbolo ha poi una caratteristica fondamentale che a questo mondo sono davvero poche le cose che la condividono: perdura senza sosta. Sopravvive all’uomo e al tempo stesso. Forse è per questo che l’uomo, intuendo inconsciamente questa sua eternità, trova così facile sottomettersi a lui.
Attenzione: è importante fare le dovute distinzioni. Il simbolo non è icona né bandiera né logo (per adattarci ai nostri tempi). Lo si capisce dal fatto che mentre queste ultime sono espressioni a cui viene dato credito e forza, il simbolo opera attraverso un delicato ma preciso meccanismo socio-culturale (ed anche in parte esoterico) che la forza la genera. Dunque nel rapporto tra lui e l’uomo egli ha parte attiva e il secondo passiva, o meglio, ricettiva. Ma questo rapporto, continuato nel tempo, non rimane impari, perché a un certo punto l’uomo, arrivando a comprenderne la natura più intima, si identifica con esso e i due si equivalgono.
La natura formale del simbolo lo vede soprattutto nelle vesti di un segno. Antropologicamente parlando, infatti, il segno è la prima e immediata espressione umana. Qualsiasi libro di storia dell’arte nelle sue prime pagine riporta le pitture rupestri degli uomini primitivi – e fa bene a farlo –. Tuttavia c’è da tenere presente che esse non sono rappresentazioni ma segni. Questo perché la rappresentazione è sempre una mimesi (anche l’astrattismo lo è: quella del concetto), il segno invece è un identificativo. In quelle pitture, così primordiali eppure – si noti – così potenti, c’è molto di più che una traccia di sé: c’è un’istruzione, un credo, una forza. Come se dicessero “questo siamo, questo è ciò che facciamo”. Ed è talmente vera questa condizione che l’essere umano l’ha trascinata con sé attraverso le grandi civiltà orientali, poi in quella egiziana e finanche quella greca. E’ anzi maggiormente emblematico che la civiltà greca, così artistica di natura, abbia virato verso l’attenzione anatomica solo in un momento avanzato della sua storia. E il tutto assolutamente non dovuto per un miglioramento di abilità, ma per una precisa scelta sociale. Già Bianchi Bandinelli, infatti, faceva notare che gli artisti greci fossero in grado di ritrarre le persone in maniera fisiognomica (caratteristica che apparterrà soprattutto a Roma), ma che non fossero interessati a farlo, perché la loro arte puntava a scopi diversi.
Il simbolo/segno dunque ha perdurato a lungo nella manifattura umana e nel suo animo ha covato e lasciato le spore che oggi ci rende antropologicamente più familiare quel rapporto tra noi e lui di cui dicevo prima.
Esso è dunque una forza in potenza che comunica e istruisce. E’ un percorso che, come una scatola cinese, nasconde un significante dentro un significato e via così, fin quando, giunto al limite ultimo, si rivela in tutta la sua completezza.
            Altra caratteristica fondamentale del simbolo, nonché secondo punto di forza, è la sua innata polivalenza. Un simbolo non è mai un’indicazione univoca. Esattamente come ho detto prima, è un percorso e una matrioska che si offre in diversi stadi di conoscenza. E’ un incrocio, un crocevia di sensi. Collega l’alto con il basso, l’Oriente all’Occidente, il rivelato con il nascosto. Si pensi ad alcuni dei grandi simboli sociali della Storia: la croce cristiana, la svastica (la intendo qui nella sua accezione nazista), la falce e il martello comunista. Notiamo come siano tutti simboli “di massa” (gli stessi sotto i quali si pongono gli uomini di cui parlavo sopra) e tutti contengono un’intersezione, perché essa esprime forza, unione, potenza e inviolabilità. Mi sembra qui superfluo nominare lo stesso incrocio presente tra compasso e squadra. E’ questo un gioco mistico e sociale che fa leva (e quindi proseliti) sugli istinti ricettivi primari dell’uomo. Si noti, inoltre, come anche qui venga rispettata la natura ultima del simbolo, in quanto alla fine l’uomo asservitosi ad esso si identifica con quello. Ma con la differenza fondamentale che mentre qui si tratta di una tacita assuefazione per fede, in altri casi, come quello della Massoneria, il simbolo stesso chiede di essere interrogato, poi colto e solo dopo che sia stato fatto proprio (cioè quado il Massone ha preso padronanza di esso) si esplica nella sua natura identificativa.
            C’è poi da rilevare l’aspetto polifunzionale del ruolo che ha all’interno del percorso massonico. Esso si pone contemporaneamente come un qualcosa dal quale apprendere e farsi guidare, ma, approfondendo la sua conoscenza, diventa un qualcosa al quale dare e darsi. Il simbolo ha poi il vantaggio di essere allo stesso tempo segreto ed aperto. Chi non ha occhi giusti per vederlo, ne percepirà sempre solo ed esclusivamente l’aspetto formale ma non eidetico. Confacendosi quindi ai dettami della Loggia, il simbolo è una mano chiusa a pugno: tiene, trattiene, racchiude, conserva, nasconde ma allo stesso tempo è in potenza un qualcosa che si schiude, si apre, mostra, rivela ed accoglie.  
            Irène Mainguy, in un’opera di mirabile completezza (almeno per i profani) quale “la Simbolica Massonica del Terzo Millenio”, nel riferire l’etimologia di “simbolo” omette un particolare che io trovo fondamentale. Riportando la natale parola greca symbolon, non ne offre l’origine più pura che è quella di syn (“con”, “insieme”) più il verbo ballo (“lancio” ma anche “pongo”), ottenendo così un’espressione che vuol dire “metto insieme”. Ecco dunque che fin nella sua natura più primeva il simbolo si presenta come un legamento di concetti.
Lo sa bene, appunto, la tradizione massonica che non a caso si fonda sull’interazione con i simboli e da simboli stessi è completamente circondata. E non c’è assolutamente bisogno di essere sognatori o romantici per poter comprendere che la forza della sua perpetuità – nonché dei suoi riti – è dovuta soprattutto ad essi.  
Quello del massone è un cammino che arriva tanto lontano, ed è fatto tanto bene proprio grazie ad una scelta estremamente oculata dei suoi simboli. Anche il profano non può che rimanere affascinato dalla precisa perfezione della corrispondenza simbolica: si pensi, ad esempio, all’uso dei numeri, in particolare al tre. Riti, segni, e momenti che in maniera minore o maggiore ritornano nelle varie logge sotto numero di tre. Toccamenti, gerarchie e strutture che si stabilizzano nella triade, dove la triade stessa si identifica nell’ideale “inizio – mezzo – fine” che a sua volta postula l’idea della medias res sia quale punto di giusto equilibrio tra le cose sia come momento di continenza, ma allo stesso tempo anche momento di svolta e cambiamento.
            Tre sono inoltre i punti necessari per creare la prima figura geometrica, posta tra i due punti della linea (continua e infinita) e il numero sempre maggiore di punti che di volta in volta crea forme diverse sino ad autoconcludersi nella forma finale che è il cerchio. La forma che si ottiene con il minor numero di punti possibili atti a creare una figura è dunque il triangolo, primo grande testimone della mente scientifica dell’uomo, nonché viatico principale di uno dei grandi iniziati quale fu Pitagora. E a riprova di quanto ho detto all’inizio, da questo punto il concetto prende a diramarsi. Infatti, da un “lato” (mi si scusi il gioco di parole) il triangolo lo si ritrova tanto nelle prime operazioni geometriche quanto in quelle più complesse, fino a raggiungere perfino le sue applicazioni nell’architettura (e invito ancora a riflettere su quanto di quello che sto dicendo si ritrovi nella Massoneria): chiunque infatti abbia studiato i primi rudimenti di questa scienza conoscerà senz’altro il metodo della trilaterazione (e quello della triangolazione), un metodo che prevede l’utilizzo di una serie di triangoli per riuscire a stabilire con massima esattezza la determinata posizione di un punto nello spazio. Ma da un altro lato il triangolo trova una sua differente interpretazione sotto la forma alfabetica di delta greco. E qui si apre un nuovo orizzonte semantico. Il delta è una delle poche lettere dell’alfabeto (se non l’unica, volendo non essere estremamente puntigliosi) a non aver mai subito modifiche tra i vari alfabeti greci (si tenga presente che, prima di una definitiva adozione a livello nazionale dei caratteri milesi – quelli che oggi si studiano nei licei –  avvenuta nel 403/402 a. C., ogni regione della Grecia aveva un suo diverso alfabeto che presentava forme più o meno differenti di una stessa lettera). Non è da sottovalutare questa “casuale” coerenza idiomatica (e uno studioso sa che nel corso della Storia, quasi nulla è dovuto al caso). Delta è poi l’iniziale del nome del padre degli dei Zeus, ma, sempre “casualmente” è anche il nome che ha etimologicamente dato vita al termine “deus”, diventato poi “dio” e realizzatosi nell’identificativo “Dio” per indicare il Signore dei cristiani. La declinazione di Zeus, infatti, si completa appunto con il termine “Diòs” nei casi genitivo, dativo e accusativo.
            E ancora ci sarebbe da dire sul triangolo come forma artistica ed architettonica, quali le piramidi, oppure meglio ancora la forma triangolare con cui vengono costruite le statue dedaliche durante l’arcaismo greco, che appunto struttura l’uomo a gruppi di triangoli (busto, testa e capigliatura che richiama quasi sempre il “klaft” egizio).
            Ecco come il simbolo si mimetizza, cambia pelle, si nasconde e rivela a tratti alterni; assume diverse sembianze e calza sfumature. Sotto questo punto di vista, per alcuni aspetti l’intera storia dell’arte è storia del simbolo rappresentato. Perfino il paesaggismo inglese del ‘700, che può sembrare un genere superficialmente banale, nasconde il simbolo di un qualcosa dietro. E’ semplicemente più steso e più diluito rispetto ad altri momenti. Nel movimento simbolista trova una sua espressione più diretta, ma una mente critica non può non riconoscere tale espressione anche nelle forme di Michelangelo, così come, andando più indietro, la si vede negli attributi degli dei (uno fra i tanti, il melograno, sacro a Persefone, che ancora una volta ritroviamo nella simbolica massonica).
            Giungiamo a questo punto ad un’ultima capitolazione. Il simbolo è anche parola. La parola intesa come codice, come sequenza di lettere. La sua affermazione più forte in tal senso è l’acronimo (accanto al suo fratello più letterario acrostico). Anche in questo campo la Massoneria è ben preparata, basti pensare all’uso delle lettere iniziali in una titolatura. O ancora in esempi come “V.I.T.R.I.O.L.” che trovo particolarmente interessante perché è uno di quei casi in cui l’acronimo diviene quasi parola a senso compiuto e oltre ad essa si tramuta in suono, dimostrandoci infine che il simbolo può anche essere fonè.
            Sul ruolo del simbolo/parola ci sarebbe tanto altro da dire, ma è pur giusto non divagare ulteriormente in un argomento che è di per sé paurosamente vasto. Ma sul rapporto tra parola/simbolo e simbolo/Massoneria, vorrei segnalare un’interessante esempio che è allo stesso tempo un’affascinante disquisizione. Si tratta della prima strofa di “Corrispondenze”, poesia tratta da “I fiori del male” di Baudelaire. Che io sappia, in nessun testo né saggio – di letteratura o sulla Massoneria – è riportata la considerazione che mi accingo a presentare. La mia umiltà mi porta a ritenere che questa assenza sia dovuta al fatto di non esserci mai stato motivo nel segnalarla, ma d’altra parte la ritengo un passo troppo stimolante per lasciarla completamente al caso. I versi recitano così:

“La Nature est un temple où de vivants piliers
Laissent perfois sortir de confuses paroles;
L’homme y passe à travers des forêts de symboles
Qui l’observent avec des regards familiers”

“E’ un tempio la Natura, dove a volte parole
escono confuse da viventi pilastri;
e l’uomo l’attraversa tra foreste di simboli
che gli lanciano occhiate familiari”

            Io credo che qualsiasi Fratello sia in grado di riconoscere in ogni singolo verso un riferimento più o meno esplicito. E’, a mio avviso, abbastanza immediato pensare, nel primo verso, al Tempio di Salomone, tanto più che nello stesso rigo (in originale) si parla di “pilastri” identificati come “viventi”. Come non pensare, dunque, ai due pilastri di una Loggia riportanti le lettere J e B e quindi in un certo senso “parlanti”?
            Abbiamo poi un “uomo che attraversa una foresta di simboli” che io individuerei nella marcia dell’affiliato. Sulla “foresta di simboli” mi sembra superfluo disquisire per quanto sia didascalica come immagine. Notiamo, in ultimo, che suddetti simboli “lanciano occhiate familiari” e qui è ugualmente facile immaginare uno dei simboli più forti e comunicativi, quello dell’occhio centrato della conoscenza.
            Come dicevo sopra, si tratta di una mia riflessione personale che non si basa su teorie precedenti e dunque mi limito soltanto ad offrirla come curiosità intellettuale, ma da semplice profano sono felice di consegnarla a quanti che, partecipi e protagonisti della materia, possono maggiormente apprezzarla.
            Mi sembra giusto concludere, così come è stato per l’inizio, questo articolo citando nuovamente Wilde, che provvidenziale e illuminante come sempre, ci ricorda che “l’Arte è un simbolo perché l’Uomo è un simbolo”. Ora tocca a noi trarre le conclusioni.



Fallo di mano (di artigiano)




A leggere il titolo della mostra, “Scolpire l’erotismo”, un brivido di sconforto mi era salito lungo la schiena. Niente di personale, ma trovo l’erotismo (nella sua accezione moderna e impacchettata) una cosa noiosa e stucchevole. L’erotismo è un po’ come lo studente del secondo anno di università, saccentello e brufoloso. Io parteggio decisamente per il porno di beniana memoria. L’eccesso, l’al di là del principio del piacere, quello si che è il vero terreno fertile per filosofia e arte su un tale argomento. L’erotismo finisce sempre per essere, prima o poi, sterile e presuntuosetto, mentre invece l’osceno, nella sua natura di o-skenè (“fuori dalla scena” e quindi dal normale visibile) è invece il vero orizzonte altro capace di mostrare il nascosto. Questa mostra è, per mia opinione, più orientata verso suddetta sfumatura piuttosto che verso l’erotismo, sia esso inteso nel senso più classico ed elegiaco sia in quello più superficiale.
            L’evento è ospitato (fino al 15 luglio) nella mediateca Mediamarte di Cava de’ Tirreni, un piccolo gioiellino di architettura che gode il favore di una interessante cornice urbanistica. Già entrarci è un piacere: è uno di quegli strani posti un po’ eremi delicati e un po’ vestiti da professionalissimi musei contemporanei, con i loro ambienti eburnei in vetro e cemento. La sala dove è stata approntato l’allestimento è accogliente e funzionale al suo scopo. Buona la posizione dei manufatti, intrecciante un dialogo aperto con le luci al neon che risaltano e paiono levigare ulteriormente gli smalti lucidi e scorrevoli sui quali l’occhio scivola abbastanza piacevolmente. Forse qualche didascalia dissertativa in più sarebbe stata apprezzabile, ma c’è anche da dire che il tutto è felicemente introdotto da un supporto audiovisivo riportante un’intervista dello stesso autore che illustra direttamente il suo pensiero (dio, che bello quanto un artista non si arrocca in una torre d’avorio né si ammanta di ermetici, simbolici, silenzi. E soprattutto, dio che bello quando artisti e curatori si accorgono che niente di meno siamo nel 2012 per cui la multimedialità, ben dosata, può essere cosa utile e gradita).
            La mostra, realizzata da Raffaele Falcone, è di per sé concepita in tre grandi gruppi di opere: quello dei “corni” (che io preferisco indentificare piuttosto quali “fiamme della fornace”, così come è indicato dalla didascalia), quello dei grandi “falli” e quello della “scacchiera impossibile”, una costruzione regolare composta dai cosiddetti “butt plug”. Sono queste tutte opere frutto di un lavoro di fornace, e la tangibilità amabilmente sporca e pastosa di queste creazioni artistiche la si avverte in pieno. La si sente, innanzitutto, dalla grandezza delle proporzioni: tutto è forte, smisurato, potente. E’ un prodotto artistico che strizza l’occhio a correnti quali il Primitivismo e il meno noto Brutalismo, ma contemporaneamente si mette educatamente all’ombra di rimandi dell’arte classica (greci e romani in primis la facevano da padrone nell’arte del priapismo). Eppure c’è un ulteriore rimando, sicuramente più sfumato ma che io trovo per certi aspetti più interessante, agli Shunga, un particolare tipo di stampe Ukiyo di natura erotica circolanti in Giappone durante l’epoca Edo (1600 circa). Queste stampe, all’epoca considerate espressione popolare ma in seguito molto rivalutate da critici e estimatori, hanno la caratteristica di rappresentare uomini e donne dagli organi genitali spropositatamente grandi. Due anni fa a Milano ce ne fu un’interessante mostra, in proposito. Sento queste espressioni artistiche più vicine al discorso di Falcone perché mi piace notare come l’apprezzamento e l’uso simbolico del fallo sia ancora oggi, in terra d’Oriente, oggetto di manifestazioni locali. Ma soprattutto è interessante notare come l’esposizione dell’organo genitale in suddette celebrazioni sia una cosa libera, normale e festosa, ma contemporaneamente, quando essa assume il carattere erotico nei film pornografici, esso viene inderogabilmente censurato e nascosto. C’è da riflettere su questa ambivalenza e sull’uso che se ne fa: è quasi come se la cultura giapponese volesse comunicare il lecito del fallo come simbolo e l’illecito del fallo come semplice strumento fisiologico.
            E’ nel rapportarsi a questi esempi che io ho visto – piacevolmente, a mio avviso – l’assenza dell’erotismo in senso lato e avuto la possibilità di percepire al suo posto l’oggetto “o-sceno”, vale a dire l’oggetto che sta oltre, che è andato altrove, essendo denaturato dalla sua appendice umana e redatto in forma pantagruelica e grottesca in un tempo; consacrato ad una natura e forma apotropaica.
            Non è da sottovalutare, inoltre, l’ironia con la quale la mostra e i suoi singoli pezzi sono stati creati. Personalmente, ho sempre riscontrato a prescindere un che di comico nell’industria del porno e confesso che la realizzazione di un’oggettistica così ricca e variegata della sua strumentazione mi ha sempre regalato un paio di risate. Questo perché fondamentalmente è la prova di quanto, sotto alcuni aspetti, l’essere umano sia ripiegato su se stesso, poiché da tanta importanza e tanto suo ingegno nell’inventare migliaia di modi differenti solo ed unicamente per eiaculare. E’ su questa falsariga che si innestano i butt plug (e non azzardatevi a confonderli con i dildos come ho sentito fare durante la mia visita alla mostra: i pornomani spietati nella loro kafkiana precisione ce ne insegnano la differenza fondamentale), ed è soprattutto con loro che si coglie il passaggio che va dall’oggetto/strumento erotico all’oggetto/manufatto artistico, il tutto avvenendo quasi solo semplicemente tramite un ingrandimento di proporzioni (la cosa divertente è che molti veri butt plug hanno effettivamente forme fantasiose ed estremamente creative per cui riesce più o meno divertente notare un certo rapporto di “chi copia chi”, quasi come se le due tipologie di prodotti – strumento e opera d’arte – giochino ad imitarsi a vicenda. E, in fondo, a prendersi in giro da soli).
            C’è poi, dietro tutto questo, l’aspetto che io considero più importante, e che apprezzo di più. Infatti, dietro il gigantismo di ogni pezzo, dietro l’ironia, dietro l’abilità e l’intento artistico, più di tutto brilla la dignità e la certa superiorità che solo il lavoro artigianale riesce a comunicare. Personalmente, sono uno di quelli che ha sempre ritenuto l’arte un qualcosa fatto di mani sporche, di sudore e frustranti tentativi. Di lavorio continuo, minimo, lento e stancante. Qualcosa che reclama schiene curve e muscoli doloranti. Qualcosa, insomma, che faccia vivere la materialità corposa del prodotto artistico. E in queste opere lo si vede tutto: è proprio lì, nell’argilla, testimoniato dalla piccola elegante imperfezione, dal segno dello smalto colato mentre si asciugava, dalla scheggiatura invisibile e seminascosta, dalle forme orgogliosamente non calibrate poiché per loro fortuna non appartengono all’insopportabilmente noioso processo di perfezione industriale.
            Un ultimo modesto consiglio: si eviti di visitare una mostra del genere con il riflusso di troppi intellettualismi in testa. Le conoscenze artistico-critiche devono stare in mente solo in veste di necessario postulato che spieghi a sufficienza l’origine antica nonché il senso recondito di un’esposizione del genere. Basti quindi giusto sapere che il lavoro di Raffaele Falcone è provocatorio nella sua originalità, ma anche ripresa e perpetuità di una tradizione antropologica e artistica ben nota e riconosciuta. Eccessive speculazioni e/o elucubrazioni semantiche che tanto danno da mangiare ai critici (e i mercanti) d’arte contemporanea rischiano di ferire nel vivo l’impatto primevo e raggiante che questi manufatti hanno. I sofisticati sofismi di dotti che spalmano parole su parole (forse proprio perché un po’ spaesati di fronte a opere del genere), ricercando fino all’ultimo la sublimazione di concetti e filosofumi vari, lasciano molto il tempo che trovano. Osservate questa mostra con gli occhi e lo stomaco, e diffidate di chi ha troppo da dire sulla natura del fallo: probabilmente non ha capito un cazzo.

martedì 19 giugno 2012

Napoli nel '700




È pacifico per chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la Storia che Napoli fu, principalmente durante il ‘700, una delle maggiori capitali culturali europee. Scrivo questo all’alba di un prossimo “forum delle culture” (non ancora nato è già vespaio di polemiche) sul quale il critico più sanguigno che è in me non vede l’ora di affondare i denti.
Tanto capitale europea, dunque, che pure quando menziona le leggendarie origini etimologiche dei suoi prodotti più tipici denunzia un dialogo con l’arte e la cultura. Mi riferisco, in particolare, alla romanzata nascita del nome della “mozzarella”, così come una tradizione – popolare ma colta – nota a pochi ce la tramanda. Il mito vuole infatti che tale battesimo avvenne durante un ricevimento nobiliare partenopeo al quale partecipava un giovane ma già noto Amadeus Mozart. Dimostratosi particolarmente ghiotto dei suddetti latticini, trascorse buona parte della serata accanto al tavolo dove erano stati poggiati come banchetto. Qualcuno, riconoscendo il musicista, ebbe ad esclamare, in francese come era buon costume fare tra le classi più alte, “Mozart est là”, indicandolo con il dito. Ora, un buon accento francese prevede innanzitutto una discreta liason tra le parole e, rispettando la zeta aspra tipicamente austro-tedesca, avremmo quindi un certo “Mozarelà”. Il fatto che il vassoio di mozzarelle fosse lungo la traiettoria del suo dito indicante ha fatto il resto.
Ovviamente, come già specificato, si tratta di una storia di pura fantasia (il termine “mozzarella” ha un’etimologia molto più tecnica), ma questo aneddoto vuole essere una dimostrazione di quanto la storia, la società e – perché no – l’inventiva napoletana fossero fuse con l’estero più illuminato e illuminista.
C’è stato dunque un tempo in cui Napoli prosperava rigogliosa tra arte, raffinatezze e mozzarelle. Ma c’è stato anche il momento, poco tempo dopo, in cui ha intrapreso una sorta di declino del quale oggi ci godiamo il ristagno (difensori indefessi della città si mettano il cuore in pace: le cose stanno così). Ma ciò su cui vorrei soffermare l’attenzione è la spinta propulsiva che in passato ha mantenuto anche (e soprattutto) durante l’affondamento. Siamo nel 1869, qualche anno dopo l’ingresso di Garibaldi nella città, e una manciata d’anni prima che Matilde Serao scrivesse “il ventre di Napoli”. La città sta diventando lentamente quel crogiolo grumoso di case, persone e problemi che da lì a cent’anni darà da parlare a politicanti, uomini di Stato, scribacchini improvvisatisi giornalisti e speculatori.
Ciononostante, e anzi grazie ai sempre più incalzanti problemi sociali, la parte intellettuale della città trova la forza di lanciare un segnale non indifferente al resto d’Italia e in particolare al Vaticano, che proprio in quell’anno decide di inaugurare il concilio ecumenico Vaticano I. La risposta al richiamo di tanta attenzione sulla Chiesa fu promossa ad opera di Giuseppe Ricciardi che diede vita al cosiddetto “anticoncilio napoletano I”.
Dati e fattori storici sono a disposizione di tutti in diverse opere editoriali, di cui alcune davvero meritevoli. Non è mia intenzione fornire informazioni già di per sé reperibili; vorrei invece suggerire dei piani interpretativi più concettuali e sicuramente del tutto personali.
Quanto Ricciardi abbia avuto a che fare con la Massoneria e quanto essa abbia effettivamente influito sul suo progetto, è materia di storiografi ed eventuali revisionisti. Ma è fuor di dubbio che la concezione di questo intento è stata del tutto anticlericale e fondata su criteri di laicità che ritroviamo tra i primordiali intenti delle logge dell’epoca. Così come è pur vero che la Massoneria di allora aveva un volto – e una forma –  diversi da quella di oggi. Era, quella, un’ispirazione che traeva origine da massimi sistemi. Non si dimentichi che siamo pur sempre nel secolo delle grandi ideologie: socialismo e anarchia marciavano forti sotto l’egida di Marx, Proudhon e Bakunin. Quest’ultimo in persona aveva postulato l’esistenza di una Massoneria ispirata a un radicale umanesimo ateo. Va ricordata inoltre una lunga deriva illuminista mai sufficientemente arginata dal Romanticismo.
La ricerca di uno stato (e Stato) di cose migliore, la natura laica dell’uomo e del suo cervello, la marcia verso il progresso, l’armonioso ordine della democrazia ateniese rivissuto in un simile intellettualismo moderno spietato e mistico al tempo stesso: sono questi i fondamenti che accomunano i grandi movimenti sociali del tempo con la Massoneria di allora. E questa comunione dava forza e soprattutto idee e risposte a quanti già sentivano gli scricchiolii di una realtà cedevole.
Non è poi da sottovalutare quanto Ricciardi scriveva in merito affermando che “Noi siamo, e noi soli, i veri discepoli del vostro Gesù, noi che ci studiamo di combattere senza posa la povertà e l’ignoranza”. Un messaggio questo che sicuramente divide molte opinioni (ricordiamo che non a caso l’anticoncilio fu un’esperienza dalla quale molti massoni stessi presero le distanze). Ma tuttavia, abbracciando l’impronta positiva e positivista delle affermazioni di Ricciardi, a me pare di poter leggere, attraverso la lente della storiografia, una sorta di impulso primo votato ad assicurare le verità fondamentali che caratterizzerebbero il vivere civile di ogni uomo. Sembra quasi, in tali parole, di sentire l’eco di quel De Andrè che reduce da anni di convinta anarchia ideologica, identifica i principi basilari della libertà dell’individuo con quelli annunciati dal Gesù uomo e non figlio di Dio, il Gesù “primo vero rivoluzionario della storia”. Basta poi leggere l’opuscolo dell’epoca La frammassoneria in dieci domande ad istruzione del popolo per ritrovare la possibile costituzione di una città che, nel suo evidente idealismo quasi sfrenato, viene a porsi a metà tra la Nephelococcygia di Aristofane e l’Utopia di Moro.
E’ dunque nel novero di grandi verità – e grandi obiettivi – che quella Massoneria andava ad inserirsi, formando così un solco che ha senza dubbio suggerito la crescita storica (per non dire i primi vagiti) dell’Italia. Una Massoneria forse non così tanto Massoneria, per vari aspetti certamente diversa. Ma rimanendo tuttavia l’interessante testimonianza di una certa comunione di intenti, di linee culturali che per un dato momento e precisi scopi hanno vibrato quasi all’unisono.
Tutto questo animava lo spirito che ha originato l’anticoncilio napoletano. E’ di un forte simbolismo il fatto che una città come Napoli, che possiamo immaginare quasi memore e fiera delle sue glorie settecentesche, abbia ospitato tra le sue mura un progetto ambizioso e sfaccettato come quello del Ricciardi. Così come tale progetto ebbe il saluto di fratelli quali Victor Hugo. C’è da chiedersi quanto sarebbe possibile e quanto bene apporterebbe risentire nella città di oggi lo stesso impulso intellettuale, benefico e vivificante.
Mi rendo conto che è un argomento talmente vasto che per trattarlo con la dovuta serietà non basterebbe un semplice articolo. Ma, come lasciavo intendere prima, non è mia intenzione farlo. Volevo semplicemente cogliere il buono che questa Storia può insegnare a noi che ne viviamo un’altra. Ed è pur giusto ricordare fatti e persone che non hanno precisamente cavalcato gli eventi come altri, ma non per questo debbano essere ignorati quali possibili modelli per ciò che ci accingiamo a vivere.

lunedì 18 giugno 2012

John Fante, l’arte del cemento

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Tra i miei scrittori preferiti rientra a pieni voti uno dei padri della letteratura americana contemporanea, nonché l’autore/modello preferito di Bukowski, vale a dire John Fante (1909-1983). E’ un ottimo scrittore, ma sopra tutto di lui  apprezzo la sua capacità narrativa di raccontare i piccoli drammi quotidiani. Ammiro la sua poetica del ruvido, dove ogni cosa sembra fatta di setole ispide: è una tecnica che  trovo molto interessante perché, a mio avviso, comunica maggiormente il senso di reale, di concreto, di umano. I suoi antieroi sono tanto “anti” nella loro incostanza, nella loro inconcludenza e nel fallimento, quanto “eroi” nel loro essere unici, nel perdere le sfide della vita ma sentirle come vittorie, nel loro essere indistruttibili. I personaggi sono quasi sempre legati  a radici italiane (lui stesso era originario dell’Abruzzo), e del bagaglio culturale della nostra terra l’autore conserva gelosamente un forte ricordo legato ai muratori, ai manovali, a questi costruttori veraci che progettavano case senza aver mai studiato nelle facoltà di architettura. Il padre stesso del protagonista della sua saga letteraria più famosa – quella di Arturo Bandini – è uno di loro. E’ un mondo, quello di Fante, fatto della stessa calcina che mi ricorda tanto i poveri di De Amicis. E’ come se la sua scrittura volesse riverberare il senso dell’Italia attraverso mattoni e cemento, attraverso l’umile onestà dei materiali che ha nella figura del Padre (figura che ritorna in più vesti -ma sempre con lo stesso ruolo- in diversi libri, primo fra tutti “full of life”) le sue sorgenti italiche, vinose e austere. Ma contemporaneamente, tale figura deve fare i conti con tutto il mondo che lo circonda, vale a dire il paesaggio americano con la sua retorica, i suoi sogni, le sue libertà quasi capricciose che sono invece rinverditi nella figura del Figlio/Autore narrante. Ecco: questo contrasto, che viene narrato in più forme e varianti nelle diverse opere è il grande magma dal quale nascono verità, contrasti e speranze che spesso hanno il sapore di fiele. E’ tutto un mondo di attese di tempi migliori, di paziente sopportazione. Tutto dovrà migliorare - una consolazione che viene avvertita illusoria con il giusto disincanto nel momento stesso in cui viene pensata - e i suoi libri raccontano il tempo minimo che scorre durante questa attesa (emblematico è il titolo “aspetta primavera, Bandini”).
Mi piace pensare a Fante come un demiurgo che ha tirato fuori il suo mondo narrativo da una betoniera e ha dato forma a quel caos/cemento impastando con mani callose ma anche con l’acume e il talento di chi nasce, per natura, con la capacità di scrivere. E questa sua capacità si avverte tutta. Le frasi rotolano via come biglie. A me hanno dato l’impressione di tanti sassolini lanciati con gesto secco nel mare, e i cerchi d’acqua che formano davvero mi sembrano l’eco di quelle parole che ancora adesso mi porto dietro, così come mi succede quando mi capita di leggere qualcosa che mi colpisce veramente dritto al cuore. Ecco, questo è Fante per me: una eco che mi circonda e che mi porta ad osservare i miei vicini di casa, i negozianti, la strada e la polvere. E, sarà suggestione o meno, ma davvero tutte queste cose e persone iniziano ad assumere i connotati di storie mezze vere e mezze finte, scritte da qualcuno tanti anni fa e dall’altra parte del mondo. E questo è, a mio avviso, il dettaglio che distingue lo scrittore dal grande scrittore: l’annullamento dello spazio e tempo, la capacità di orchestrare una storia facendo in modo che rifletta parametri universali, consegnando personaggi, luoghi e cose ad una sorta di eternità letteraria (un po’ lo stesso motivo per cui l’ “Odissea” si è prestata straordinariamente alla rilettura joyciana dell’ “Ulisse”).
E’ dunque rimandando alla lettura dei libri di questo straordinario autore che mi piacerebbe aprire una parentesi  che nasca dalla letteratura pura e trovi un suo sbocco nella vita sociale e nell’attualità.
Più volte ci si chiede cosa sia la “civiltà”. Oppure cosa sia una “città”. La verità è che entrambe sono la stessa cosa, perché antropologicamente e storicamente parlando, il sapersi organizzare in una determinata stratificazione sociale da parte dell’uomo, dà origine a quello che poi, da un punto di vista urbanistico, viene definita appunto città. Ma io, appellandomi a quanto può insegnare la cultura della Grecia antica, aggiungerei a questi due termini un terzo, vale a dire “cittadinanza”, e che, come i precedenti, si equivale ad essi, riflettendosi in loro come in uno specchio.
Abbiamo quindi così un’equazione che identifica la “cittadinanza” (le persone) con “città” (il luogo) e, a sua volta, con la “civiltà” (la cultura).
E’ stata l’operosità di uomini volenterosi che ha tirato su il Partenone di Atene, così come la stessa operosità di altri uomini ha reso forti popoli di ogni quando e ogni dove. E guardando i loro risultati, conviene che ci si renda conto di una delle più grandi verità: la cultura è un affare fatto di mattoni, calcina e vanghe. E’ un qualcosa che dialoga con il sudore, con le ossa rotte, con l’impegno e la sofferenza. Tutto questo perché – sia ben chiaro – fare cultura vuol dire costruire.
E, in altri casi, vuol dire anche aggiustare. Così come è stato per il teatro in piazza Seesen Harz di Montecorvino Rovella che da un po’ di tempo sonnecchiava già pronto ad abbandonarsi all’incuria. Ignorato, in maniera ugualmente colpevole, un po’ da tutti. Colpevole perché se è pur vero che cultura è costruire, al contrario abbandonare è delitto.
Invece da pochi giorni si è appreso la notizia che un gruppo di cittadini, nel pieno rispetto della propria città, ha deciso autonomamente di fare qualcosa per promuovere il senso di civiltà (vedete come, quasi matematicamente, l’equazione torni, risultando esatta). Muniti degli strumenti giusti, hanno ridipinto e aggiustato, nei limiti del possibile, l’orchèstra e la skenè (così come i greci chiamavano le parti del teatro che oggi potete vedere ricolorate. E non è un caso che abbia utilizzato tali termini). E in tale ambito, è ugualmente giusto ricordare l’attrezzo della sala prove ivi presente, la cui realizzazione è nata sotto un impulso e un impegno simile.
E’ sempre piacevole venire a conoscenza di una miglioria apportata al proprio paese, anche per quelli che, come me, lo vivono da lontano. Ma da parte mia è stato ancora più bello sapere che non le autorità, ma le persone abbiano deciso di fare questo e soprattutto non a un edificio qualsiasi, ma ad un teatro.
In questo gesto, io ho visto un simbolo di civiltà. Civiltà pura, al 100% e sotto ogni aspetto. Cittadini che ristrutturano gli edifici rappresentativi di cultura. Ricordando che, per tornare a quanto dicevo sopra, l’opera manuale di costruzione e ristrutturazione è cultura stessa. Dunque, vada tutto il mio modesto plauso per l’impegno e la volontà dimostrati da quanti hanno deciso di partecipare ed aiutare in questa piccola impresa. Nei tempi un po’ infausti nei quali siamo costretti a barcamenarci, non credo ci sia niente di più bello ed esemplare da fare.
Perché è tempo di costruire e ricostruire. E’ tempo di tornare al cemento di John Fante, così come è tempo di imparare a leggere quello che lui diceva a proposito di quel cemento. A tal proposito, mi sono sempre chiesto come reagirebbe se lui, con le sue origini abruzzesi e le mani avvezze a secchio e cazzuola, vedesse oggi le rovine de L’Aquila. Pensate a cosa direbbe (o forse non direbbe, sconvolto) sia in quanto figlio di muratori di fronte alle macerie, sia come intellettuale e fiore all’occhiello della cultura di fronte all’immobilismo politico e sociale. Proprio lui che le sue radici italiane è andato ad affondarle in un paese, quale l’America, che nonostante tutti i difetti e le contraddizioni, resta il paese del “tirarsi su le maniche”, della ricostruzione (senza speculazione) dopo i tornados, il paese dove l’ex presidente Carter trascorreva la sua pensione costruendo case pro bono in qualità di falegname e carpentiere. Impariamo da quello che di buono l’America italiana di Fante ci può offrire. Servono pale, picconi e pennelli. Servono persone che sappiano pensare e sappiano impilare mattoni. C’è bisogno, in maniera sia piccola che grande, di tirare su edifici e tirare su noi stessi. Così come c’è bisogno di imparare da capo la grammatica della civiltà. E soprattutto, c’è bisogno di farlo senza aspettare l’arrivo dei “nostri”, perché, come diceva Dario Fo in un suo spettacolo, “i nostri siamo noi”.


Conosci te stesso: la mostra “Body Worlds” a Napoli

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Sicuramente una mostra consigliata a tutti gli amanti dell’eccezionalità. E’ questa, infatti, l’occasione per vedere un’esposizione che normalmente richiederebbe uno spostamento in Germania, Inghilterra, America, Cina o Giappone, mentre per la prima volta da quando fu inaugurata nel 1995 arriva in Italia. Precedentemente ha stazionato a Roma da settembre 2011 e prorogata, dato il successo, a marzo 2012 ed attualmente ospitata a Napoli. Io che ancora rimpiango di aver perso la mostra dell’Altare di Pergamo del 1996 - accuratamente smontato dalla sua sede berlinese per l’occasione e rimontato a Roma - non posso che mettere inizialmente in evidenza l’unicità nel vedere un’esibizione del genere.
Con questa premessa, è doveroso precisare di cosa si tratta. “Body worlds” è una mostra itinerante mondiale che prende origine dal metodo di “plastinazione” ideato dal dr. Gunther  von Hagens, il quale adoperò per primo tale tecnica, permettendo appunto di “plastinare” i corpi umani, posizionandoli negli atteggiamenti più vari.
Si parla dunque di corpi veri, donati alla scienza tramite richiesta, e privati dello strato di pelle, in modo da mostrare muscolatura, ossa, organi e immobilizzati per sempre in pose particolari, mettendo in risalto le zone del corpo che normalmente si usano quando si pensa, si corre, si salta, si suona,  si beve, e si fuma.
L’esposizione si trova attualmente nel Real Albergo dei Poveri,  uno dei diversi palazzi-truffa di Napoli, con la sua facciata bianca, nuova e tirata a lucido, mentre l’interno è una rovina pressoché continua. A riprova di quanto sopra, all’inizio dell’orario di visita mostra vengo informato che dovrò aspettare un po’ per via della mancanza di corrente, e dunque il biglietto d’entrata non può essere convalidato. Passati trenta minuti seduto in attesa, mi mandano incontro una bella ragazza biondissima e sorridente dall’accento teutonico (sono furbi questi tedeschi), la quale mi informa che la corrente non sarà ripristinata entro la prossima ora e mezza, perché la pioggia della notte ha fatto saltare un po’ di impianti. D’altronde, c’è da alzare le mani: siamo solo nel 2012, mica nell’antica Roma che la pioggia sapeva incanalarla ovunque volesse ed eventualmente servirsene. Oggi come oggi, per queste impossibili gocce d’acqua possiamo fare poco e niente. Per la serie: bello che decidano di fare una mostra o un evento  a Napoli, ma peccato che la facciano a Napoli. Decido quindi di rinunciare al primo tentativo, ripromettendomi di tornare l’indomani, e intanto mi consolo con il vicino Museo Archeologico Nazionale, che pure non se la passa tanto meglio (ma questa è un’altra storia).
Ritorno il giorno dopo con un certo timore addosso (ha piovuto di nuovo durante la notte e ho paura che al posto del Real Albergo ci sia solo un cumulo di macerie). Per mia fortuna non è così.
La mostra è ben concepita, con una divisione in settori funzionale. Si procede per grandi gruppi, per organi, per processi. Si parte dallo scheletro, per poi passare alla muscolatura, e ancora a nervi ed arterie. Esaustive, nel loro piccolo, le didascalie, che in maggior parte sono in italiano e inglese. Assenti gli altri idiomi europei,  anche se tra i presenti che si trovavano con me in quell’orario morto, la metà erano stranieri (ovviamente) e per lo più francofoni (la progressista Francia con la sua tipica famiglia di genitori gioviali e bambini educatissimi che guardano, bisbigliano e si meravigliano sono sempre una piacevole compagnia). I visitatori italiani appartenevano in maggior parte ad un pubblico già abbastanza istruito in materia e composto dai vari & eventuali dotti, medici e sapienti.
Concettualmente, il tutto è articolato in due percorsi: un primo che ci porta alla scoperta del corpo umano sic et simpliciter, e un altro che ce lo presenta inserito nel vivere quotidiano. Così, accanto alla visione del singolo organo (e le sue eventuali varianti patologiche), lo vediamo in “funzione”, per così dire, nel suo contesto biologico. Cosa succede al deltoide quando giochiamo a tennis? Come funziona la colonna vertebrale quando ci chiniamo? Quali muscoli si tendono, sotto sforzo, mentre si esegue un velocissimo assolo di chitarra? Le risposte vengono rivelate all’occhio dello spettatore con una naturalezza e una semplicità che quasi fanno rimpiangere di non essersi iscritti a medicina (io per lo meno, l’ho pensato).
In linea di massima, è una mostra che si visita con lo stesso entusiasmo di quando si vede una puntata di “esplorando il corpo umano”. Per quanto preparati, c’è da imparare qualcosa sicuramente. E si impara senza sentirne il peso. Anzi, c’è  quasi sempre quel sottile leit motiv di fondo che ti porta a vedere il tutto con lo stupore verso il bizzarro come se fosse un sideshow di fine ottocento.
Ma del sideshow fatto di fenomeni da baraccone e di uomini elefante non c’è nulla. Non c’è morbosità in quei corpi -seppur veri- smontati, rimontati, depellati, aperti. Semplicemente si staziona in quel limbo di medicina che agli occhi dei profani può forse fare impressione, ma che si tratta solo di normale biologia.
Non ho avvertito inquietudine, anche davanti a corpi sezionati. Per come è concepita e presentata, la mostra non ha altro fine se non la divulgazione scientifica, soprattutto verso i non addetti. Se poi la visione di corpi può infastidire o meno, dipende in parte da come la si prende, in parte dalla propria sensibilità. Sinceramente, trovo più disturbanti (e inutili) le porcherie artistoidi di Damien Hirst, con le sue mucche affettate e altri animali sotto vetro.
E’ una mostra più scientifica che artistica; anzi, di artistico (ricordando che “artistico” non intende solo quadri e statue) non ha quasi niente. Dico “quasi” perché è pur giusto ricordare che il cammino dell’arte occidentale nasce con lo scopo di racchiudere la forma umana nella pietra e nella tela. Una ricerca benedetta dal monito di Protagora secondo il quale “l’uomo è misura di tutte le cose”, e la ricreazione della vita umana in un manufatto è l’ossessione che il percorso artistico del nostro emisfero si è portato appresso fino a quando il Novecento non ha cercato di smontare questa convinzione a colpi di impressioni, cubi e linee astratte.
Mi piace quindi pensare a “body worlds” come la vendetta di quell’arte alla ricerca dell’uomo nei confronti del concettuale anti figurativo. Ed è una vendetta tutta moderna, che si allontana dai tradizionali pennelli, e piuttosto che lo scalpello dello scultore preferisce lo scalpello del medico (affascinante notare come il termine sia lo stesso). Inevitabile pensare al lavoro del chirurgo estetico, che “scolpisce” seni, labbra e glutei. Opera una limata qua, rifinisce qualche dettaglio lì ed ecco, infine, la bambola-statua di carne, perfetta e finta come gli antichi parenti di marmo.
Va detto che la mostra, nel corso del tempo, ha suscitato diverse polemiche, soprattutto per via di un mancato rispetto religioso per il morto e il corpo umano in sé. E qui bisogna tornare a quanto detto prima: è un’esposizione di natura scientifica. Giocare a far coincidere scienza e fede è sempre impegnativo e spesso impossibile. La migliore soluzione è affidarsi all’una o l’altra, evitando di sfociare nel dibattito sterile e ricordando che i corpi presenti sono donazioni volontarie di chi ha ritenuto giusto partecipare a questa sorta di esperimento collettivo. Sul motivo del perché una persona desideri questo, è inutile speculare: ogni singolo individuo ha una ragione ugualmente valida e ugualmente differente.  Potrebbe perfino essere l’ingresso gratuito, riservato appunto a chi ha intenzione di donare il corpo alla mostra. E non si può biasimare chi lo fa: oggi come oggi 13 euro (il costo del biglietto) mettono il pranzo in tavola a più di una famiglia.