Sicuramente
una mostra consigliata a tutti gli amanti dell’eccezionalità. E’ questa,
infatti, l’occasione per vedere un’esposizione che normalmente richiederebbe
uno spostamento in Germania, Inghilterra, America, Cina o Giappone, mentre per
la prima volta da quando fu inaugurata nel 1995 arriva in Italia.
Precedentemente ha stazionato a Roma da settembre 2011 e prorogata, dato il
successo, a marzo 2012 ed attualmente ospitata a Napoli. Io che ancora rimpiango
di aver perso la mostra dell’Altare di Pergamo del 1996 - accuratamente
smontato dalla sua sede berlinese per l’occasione e rimontato a Roma - non
posso che mettere inizialmente in evidenza l’unicità nel vedere un’esibizione
del genere.
Con
questa premessa, è doveroso precisare di cosa si tratta. “Body worlds” è una
mostra itinerante mondiale che prende origine dal metodo di “plastinazione”
ideato dal dr. Gunther von Hagens, il
quale adoperò per primo tale tecnica, permettendo appunto di “plastinare” i
corpi umani, posizionandoli negli atteggiamenti più vari.
Si
parla dunque di corpi veri, donati
alla scienza tramite richiesta, e privati dello strato di pelle, in modo da
mostrare muscolatura, ossa, organi e immobilizzati per sempre in pose
particolari, mettendo in risalto le zone del corpo che normalmente si usano
quando si pensa, si corre, si salta, si suona, si beve, e si fuma.
L’esposizione
si trova attualmente nel Real Albergo dei Poveri, uno dei diversi palazzi-truffa di Napoli, con
la sua facciata bianca, nuova e tirata a lucido, mentre l’interno è una rovina
pressoché continua. A riprova di quanto sopra, all’inizio dell’orario di visita
mostra vengo informato che dovrò aspettare un po’ per via della mancanza di
corrente, e dunque il biglietto d’entrata non può essere convalidato. Passati
trenta minuti seduto in attesa, mi mandano incontro una bella ragazza biondissima
e sorridente dall’accento teutonico (sono furbi questi tedeschi), la quale mi
informa che la corrente non sarà ripristinata entro la prossima ora e mezza,
perché la pioggia della notte ha fatto saltare un po’ di impianti. D’altronde,
c’è da alzare le mani: siamo solo nel 2012, mica nell’antica Roma che la
pioggia sapeva incanalarla ovunque volesse ed eventualmente servirsene. Oggi come
oggi, per queste impossibili gocce d’acqua possiamo fare poco e niente. Per la
serie: bello che decidano di fare una mostra o un evento a Napoli, ma peccato che la facciano a
Napoli. Decido quindi di rinunciare al primo tentativo, ripromettendomi di tornare
l’indomani, e intanto mi consolo con il vicino Museo Archeologico Nazionale,
che pure non se la passa tanto meglio (ma questa è un’altra storia).
Ritorno
il giorno dopo con un certo timore addosso (ha piovuto di nuovo durante la
notte e ho paura che al posto del Real Albergo ci sia solo un cumulo di
macerie). Per mia fortuna non è così.
La
mostra è ben concepita, con una divisione in settori funzionale. Si procede per
grandi gruppi, per organi, per processi. Si parte dallo scheletro, per poi
passare alla muscolatura, e ancora a nervi ed arterie. Esaustive, nel loro
piccolo, le didascalie, che in maggior parte sono in italiano e inglese. Assenti
gli altri idiomi europei, anche se tra i
presenti che si trovavano con me in quell’orario morto, la metà erano stranieri
(ovviamente) e per lo più francofoni (la progressista Francia con la sua tipica
famiglia di genitori gioviali e bambini educatissimi che guardano, bisbigliano
e si meravigliano sono sempre una piacevole compagnia). I visitatori italiani
appartenevano in maggior parte ad un pubblico già abbastanza istruito in
materia e composto dai vari & eventuali dotti, medici e sapienti.
Concettualmente,
il tutto è articolato in due percorsi: un primo che ci porta alla scoperta del
corpo umano sic et simpliciter, e un
altro che ce lo presenta inserito nel vivere quotidiano. Così, accanto alla
visione del singolo organo (e le sue eventuali varianti patologiche), lo
vediamo in “funzione”, per così dire, nel suo contesto biologico. Cosa succede
al deltoide quando giochiamo a tennis? Come funziona la colonna vertebrale
quando ci chiniamo? Quali muscoli si tendono, sotto sforzo, mentre si esegue un
velocissimo assolo di chitarra? Le risposte vengono rivelate all’occhio dello
spettatore con una naturalezza e una semplicità che quasi fanno rimpiangere di
non essersi iscritti a medicina (io per lo meno, l’ho pensato).
In
linea di massima, è una mostra che si visita con lo stesso entusiasmo di quando
si vede una puntata di “esplorando il corpo umano”. Per quanto preparati, c’è
da imparare qualcosa sicuramente. E si impara senza sentirne il peso. Anzi, c’è
quasi sempre quel sottile leit motiv di fondo che ti porta a
vedere il tutto con lo stupore verso il bizzarro come se fosse un sideshow di fine ottocento.
Ma
del sideshow fatto di fenomeni da
baraccone e di uomini elefante non c’è nulla. Non c’è morbosità in quei corpi
-seppur veri- smontati, rimontati, depellati, aperti. Semplicemente si staziona
in quel limbo di medicina che agli occhi dei profani può forse fare impressione,
ma che si tratta solo di normale biologia.
Non
ho avvertito inquietudine, anche davanti a corpi sezionati. Per come è
concepita e presentata, la mostra non ha altro fine se non la divulgazione
scientifica, soprattutto verso i non addetti. Se poi la visione di corpi può infastidire
o meno, dipende in parte da come la si prende, in parte dalla propria
sensibilità. Sinceramente, trovo più disturbanti (e inutili) le porcherie
artistoidi di Damien Hirst, con le sue mucche affettate e altri animali sotto vetro.
E’
una mostra più scientifica che artistica; anzi, di artistico (ricordando che
“artistico” non intende solo quadri e statue) non ha quasi niente. Dico “quasi”
perché è pur giusto ricordare che il cammino dell’arte occidentale nasce con lo
scopo di racchiudere la forma umana nella pietra e nella tela. Una ricerca
benedetta dal monito di Protagora secondo il quale “l’uomo è misura di tutte le
cose”, e la ricreazione della vita umana in un manufatto è l’ossessione che il
percorso artistico del nostro emisfero si è portato appresso fino a quando il
Novecento non ha cercato di smontare questa convinzione a colpi di impressioni,
cubi e linee astratte.
Mi
piace quindi pensare a “body worlds” come la vendetta di quell’arte alla
ricerca dell’uomo nei confronti del concettuale anti figurativo. Ed è una
vendetta tutta moderna, che si allontana dai tradizionali pennelli, e piuttosto
che lo scalpello dello scultore preferisce lo scalpello del medico (affascinante
notare come il termine sia lo stesso). Inevitabile pensare al lavoro del
chirurgo estetico, che “scolpisce” seni, labbra e glutei. Opera una limata qua,
rifinisce qualche dettaglio lì ed ecco, infine, la bambola-statua di carne,
perfetta e finta come gli antichi parenti di marmo.
Va
detto che la mostra, nel corso del tempo, ha suscitato diverse polemiche,
soprattutto per via di un mancato rispetto religioso per il morto e il corpo
umano in sé. E qui bisogna tornare a quanto detto prima: è un’esposizione di natura
scientifica. Giocare a far coincidere scienza e fede è sempre impegnativo e
spesso impossibile. La migliore soluzione è affidarsi all’una o l’altra,
evitando di sfociare nel dibattito sterile e ricordando che i corpi presenti
sono donazioni volontarie di chi ha ritenuto giusto partecipare a questa sorta
di esperimento collettivo. Sul motivo del perché una persona desideri questo, è
inutile speculare: ogni singolo individuo ha una ragione ugualmente valida e
ugualmente differente. Potrebbe perfino
essere l’ingresso gratuito, riservato appunto a chi ha intenzione di donare il
corpo alla mostra. E non si può biasimare chi lo fa: oggi come oggi 13 euro (il
costo del biglietto) mettono il pranzo in tavola a più di una famiglia.
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