Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

domenica 28 luglio 2013

La bellezza e l'inferno

E poi esce dal lounge bar, quello riservato alla stampa e agli ospiti.
Anzi, per la precisazione esce prima un addetto alla sicurezza, poi uno della sua scorta. E poi un altro. E un altro ancora. Ci guardano impassibili da dietro gli occhiali da sole.
E infine lui.
Giacca blu scuro e camicia intonata. Saluta con la testa lievemente abbassata, ma gli occhi guardano avanti. Guardano noi.
"Grazie per questo miracolo che è Giffoni. E grazie per i vostri occhi", dirà da lì a un'ora a un'intera platea di ragazzi. E' stata tutta un'osservazione reciproca, noi con lui e lui con noi.
Noi che stiamo lì e lo aspettavamo, noi che quasi non ci crediamo vedendolo. Noi e le nostre foto e videocamere che fino a qualche minuto fa fremevano nell’afa di un attesa che sembrava spasmodica (e invece il suo arrivo è stato addirittura in anticipo) come quella di un bambino alle 23:30 del 24 dicembre e che adesso sembrano imbarazzarsi davanti a lui non sapendo che fare.
Ma lui ci sorride, di un sorriso sfuggente e riservato. Dolce.
E ci disarma, quasi. Potesse farlo davvero, non avrebbe più problemi né quella costellazione di guardie del corpo che gli orbitano intorno.
Farà davvero il blue carpet? Si, a quanto pare si.
E non solo. Si ferma. Firma autografi. Saluta, ma non come un divo. Come una persona che hai lasciato la sera prima dopo una birra insieme. Si concede in una umanità talmente genuina che le persone stesse sembrano imbarazzate
E’ Saviano. Roberto Saviano.
Avanza con intorno le body guards di una vita, quella vita che condividono e condivideranno con lui. Come si fa a guardarlo e non vedere dietro di lui il peso, l’onere e l’onore di una condizione tanto nota, tanto chiacchierata, tanto giusta ma allo stesso tempo tanto ingiusta? Lo vedo e resto talmente inerme che mi si smonta pure il disprezzo che porto verso Emilio Fede quando in tv diceva che “l’Italia non ha bisogno di lui”.
Mi viene da pensare a Benigni, quando in “vieni via con me” invitava le persone a volergli bene, non fosse per altro che per questa vita tutta programmata e meticolosamente studiata a tavolino che è costretto a fare. Lo guardo, e mi viene voglia di volergli bene.
Lo guardo, e il critico instancabile che è in me si chiede se c’è del divismo in lui.
Per la cronaca, no, non c’è.
Davanti a me c’è un uomo che saluta e firma autografi senza ostentarsi. C’è un uomo e tutto quello che ha scritto o detto, le cose che ha scomodato, i meccanismi in cui si è inserito.
Ma non importa tanto quello che ho davanti, quanto quello che ho dentro. E cosa ho dentro è difficile da raccontare. E’ un momento vuoto ma allo stesso tempo pieno; qualcosa che ha a che fare con il rispetto, sicuramente.
Ma non il rispetto mafioso. Non il rispetto che proiettano sugli schermi e ci raccontano con insulse soap opera. Non è il rispetto dei capoclan, quello nel cui mito crescono tanti ignari ragazzi i cui cervelli vengono strappati dal pensare e alle loro braccia viene chiesto di distruggere invece di creare.
E’ invece un rispetto puro, quello che si offre a qualcuno perché semplicemente ne desideri la felicità. Ne riconosci il valore, ma non perché imposto: perché sei tu che vuoi lo abbia. Sei tu a caricarlo di significato, perché il rispetto più aureo è quello che tu dai spontaneamente, non quello che ti viene chiesto di dare.
Ecco, Saviano è questo. E’ rispetto vero. Il rispetto che ha il padre verso il figlio, quello che ha l’amante verso la persona amata. Quello che ha il vento verso un fiore o che Pasolini aveva verso l’essere umano.
E Saviano, con quello che è e quello che ha fatto, insegna a tutti noi che questo rispetto è migliore di quello mafioso.
Saviano è più forte della mafia.



P.S. A chiusura dell’articolo, devo confessare che alla fine su Emilio Fede ho cambiato di nuovo opinione. Preferisco continuare a disprezzarlo.

venerdì 19 luglio 2013

Giffoni Film Festival, i giochi sono aperti





Vivere il Giffoni Film Festival non è facile. Anzi è facile. Anzi, è un po’ l’uno e un po’ l’altro. Come quando un bambino prova a misurarsi con il mondo degli adulti. E’ tutto così grande e a tratti così sfuggente, però inevitabilmente quel tutto viene ridotto ai minimi termini, fatto a pezzettini dall’enorme schiacciasassi che è la fantasia dei piccoli.

Il Festival è una strada ai cui estremi c’è rispettivamente un adulto e un ragazzo. Il senso del festival è invece portare quell’adulto e quel ragazzo al centro della strada, con l’uno che viene incontro all’altro.

L’idea che si percepisce stando lì e proprio quella. Di incontro. Di discussione. Di confronto tra generazioni.



Io credo che un giornalista mandato lì per raccontare il festival prima o poi si scontrerà con quell’inevitabile pensiero che ti porta a notare il fermento, il brulicare di un microcosmo che si agita e ride nella Cittadella del cinema, ma che ritrova anche angoli più tranquilli e ugualmente stimolanti quali la Sala Lumière, il Convento di San Francesco o ancora le Antiche ramiere, posto assolutamente delizioso oggi ancora in parziale allestimento ma da domani già meta e cuore pulsante di interessanti incontri e mostre.

Ci sono dunque altri festival all’interno del festival, altri scenari, altre sfumature, altre visioni.



E’ questo il caleidoscopico mondo dei ragazzi, che smerigliano la realtà frazionandola in tanti aspetti diversi.

Certo, molto meno poeticamente possiamo dire che non è altro che una buona macchina organizzativa che, intendendo bene il suo lavoro, ha ben pensato di distribuire eventi ed energie in maniera sparsa per il paese, pensando alle esigenze di tutti – grandi, piccoli, fan, semplici interessati, fedelissimi del cinema, amanti della televisione, frequentatori di mostre e amanti dell’enogastronomia – in modo da far sedere sulle sue poltrone quante più persone possibile. Potremmo dirlo, e forse diremmo una verità più reale di altre.

Ma oggi – almeno per un giorno – preferisco che a vincere, una volta tanto, sia la fantasia, l’allegria anarchica dei bambini, il sogno e il fanciullo bisogno di illudersi. 

venerdì 5 luglio 2013

Facciamoci del male 8 / Facce di bronzo


Mi spiace, so che non dovrei dirlo. 
So che prima di esprimere questo pensiero devo ricordarmi di essere più o meno un comunicatore, sto scrivendo una cosa per un pubblico indefinito, quindi dovrei operare attente valutazioni prima di inveire contro qualcuno.
Tecnicamente, per dovere formale e buon gusto, dovrei dire "vergognatevi".
Ma altro dovere di un comunicatore è essere onesto. Vorrei dire: "o voi tutti che siete responsabili di questi ritardi e questa chiusura prolungata, spero davvero con tutto il cuore che moriate quanto prima".
L'ho detto.