28 / 7 / 2013
GIFFONI 2013, THE END
L’ultimo mio articolo su questa
edizione del Giffoni Film Festival vorrei aprirlo – scusandomi con tutti, ma a
breve spiegherò il perché – con quella che io ritengo la cosa meno
giornalistica da fare, vale a dire esprimere spietatamente le mie opinioni
senza presupporre un dialogo con il lettore, ma imponendogli come la penso e
non attenendomi in pieno al mio lavoro. Faccio, se permettete, quello che fa il
90% delle persone e il 50% dei presunti giornalisti: sputo sentenze.
Per cui, in una maniera sintetica
e crudele, scrivo qui cosa ne penso degli ospiti di questo Festival; lo faccio
anche per scrollarmi di dosso un po’ di blando buonismo maturato lungo questa
kermesse che proprio non c’entra niente con me.
Stefania Rocca: brava e bella.
L’ho adorata in “Nirvana” di Salvatores.
Francesca Cavallin: niente di
personale verso di lei, ma tranne “Boris”, “Romanzo criminale” e “Il mostro di
Firenze”, la fiction italiana per me non esiste.
Francesco Mandelli e Fabrizio
Biggio: i soliti idioti. Nomen omen.
Paul Sorvino: era in “Rocketeer”,
figata! Oh, no: era anche ne “L’onore e il rispetto”.
Mira Sorvino: come si può non
amare Linda Ash in “Mighty Aphrodite” di Allen?
Elio, Faso, Cesareo: per quel che
mi riguarda, le uniche persone degne di ricoprire rispettivamente la Presidenza
della Repubblica, quella del Consiglio, e quella della Camera. A vita. E il
patto con gli italiani deve essere che loro la smettono con X Factor e noi la
smettiamo di scaricare gli album gratis dal web. P.S. Mangoni sindaco di tutte
le città d’Italia.
Jessica Chastain: impeccabile nel
ruolo di ospite del Giffoni Film Festival
Dario Argento: un bravo regista
che ha smesso di fare film degni di questo nome nel 1993 dopo “Trauma”. Ma
forse l’ospite più gentile, buono e disponibile del Festival. Escludendo astri
come Saviano, si intende.
Mino Caprio: la voce di Peter
Griffin, Boe Szyslak, Abe Simpson e Hubert Farnsworth. Cacchio volete di più?
Gabriele Caprio: bisogna
aspettare che faccia qualcosa di più impegnativo per giudicarlo, se no adesso
si rischia solo di scambiarlo per l’ex bambino della Kinder.
Luigi Di Maio: aperto,
colloquiale, a tratti sognante. Un grillino con tutti i pregi e i difetti,
insomma.
Alessandro Siani: un comico
napoletano degli ultimi dieci anni, dunque una persona che impone la sua
simpatia a furia di latrare e parlare con la zeppa in bocca.
Giovanni Allevi: presunzione,
idiozia e mediocrità uniti in una faccia che invoca disperatamente di essere
presa a schiaffi. Con un guanto di ferro di un’armatura medievale.
Logan Lerman: ragazzetto
americano slavato. Però anche Di Caprio lo era ai tempi di “Titanic”: chissà,
magari diventa pure lui quel dio di attore che è adesso.
Alexandra Daddario: la si vede e
si pensa che se fosse stata la nostra D’Addario forse Berlusconi sarebbe stato
quasi da giustificare. Comunque, visto che anche lei deve crescere, al massimo
le si può augurare di diventare brava davvero, senza fare la fine di Kristen
Stewart.
Filippo Nigro: bravo in quel che
ha fatto e promettente per quel che farà. E poi ha recitato nel “RIS”, la
fiction italiana la cui mediocrità porta inevitabilmente alla genialità più
assoluta. Nel telefilm è riuscito a rimanere serio mentre recitava con il
pupazzo Gnappo (alias Ugo Dighero), quindi è un signor attore.
Bandabardò: salve, siamo una band
italiana che si ascolta nei licei classici e soprattutto nei parchi delle ville
comunali mentre ti scoli una birretta e pensi che la vita, a seconda di quanti
anni hai, sia “tranquilla”, “sciolta” o “scialla”.
Naya Rivera: commovente la sua
riservatezza e un sobrio gusto nel non ostentarsi.
Max Gazzè: non lo seguo, ma non
trovo perché parlarne male.
Guè Pequeno: inutile.
Fedez: inutile.
Ntò: inutile.
Salmo: inutile.
Ensi: devo proprio ripeterlo
ancora?
Eddie Redmayne: very british. Mi
piace.
Giancarlo Giannini: è Giancarlo
Giannini. Punto.
Max Pezzali: l’unica cosa che mi
fa pensare a lui con un sorriso è che ha introdotto (e successivamente cantato
per intero) “Shpalman”. Non basta per riequilibrare un’intera carriera, ma
aiuta.
Roberto Saviano: Carisma.
Rispetto. Nobiltà. Peccato che lo leggano tanto gli intellettuali radical chic
dell’ultima ora per fare bella figura nei caffè letterari.
Renzo Arbore: un eterno giovane,
che non sempre è una cosa buona. Il suo cruccio più grande è quello di non
essere abbastanza napoletano.
Sacha Baron Cohen: lo amo.
Alessandro Gassman: ha fatto un
calendario. Ma anche un interessante “Riccardo III”, quest’anno.
Anna Maria Barbera: fossero stati
Hanna e Barbera, sarebbe stato infinitamente meglio. Ma pure se fosse stata una
tizia qualsiasi di nome Anna con un bottiglia di barbera in mano era meglio lo
stesso.
Due parole, a conclusione, sul
Festival in sé. E’ una versione in scala ridotta (ma non misera) di
appuntamenti maggiori come Cannes, Venezia, o gli Oscar. Vale a dire, un
qualcosa che è principalmente una vetrina espositiva che sta a metà fra il
commerciale e il politico. Tuttavia funziona, fa promozione, attira persone in
massa, produce introiti in un modo o nell’altro. E’ vero, si potrebbe pensare a
progetti che hanno comunque respiri internazionali ma hanno un legame più forte
con il cinema d’autore e la cultura come il Sundance o il Festival del cinema
di Berlino, ma la via che si è scelta di intraprendere è questa (dicasi lo
stesso per i succitati Oscar e Cannes), e a mio avviso è quella più adatta
considerando la limitatezza della materia prima che servirebbe (la cultura) in
un paese così ottuso e lento come l’Italia (abbiamo visto come la presenza di
un Baron Cohen – che proprio commerciale non è – abbia quasi mandato in tilt
l’opinione giornalistica: vogliamo ancora parlare di apertura mentale o
preferiamo fare una bella autocritica?). Sempre ammesso che per cinema
culturale non si intenda ancora proporre noiosi e stereotipati
corto/mediometraggi in gelidi - crudi - bianco e nero, fatti da registi
magrolini e barbuti che infilano un Bèla Tarr, Tarkovsky e Ozu in ogni mezza
frase che dicono.
Detto ciò, concludo questo sfogo
– non sarebbe possibile classificarlo altrimenti – per arrivare a toccare un
tema che mi è stato a cuore in questi giorni, e cioè quello del senso del mio
lavoro all’interno del Giffoni Film Festival. Ho avuto modo di confrontarmi con
più realtà, principalmente con quella del pubblico, quella delle star, e infine
con quella dei giornalisti. Queste tre realtà interagiscono tra di loro in un
maniera assolutamente chimica e legante: l’una non può fare a meno dell’altra,
altrimenti nessuna esisterebbe. Ognuna di queste realtà ha i suoi pregi e
difetti, ma forse quella più rilevante rimane il pubblico, che è l’ultimo
anello di questa catena, ma è anche il giudice che in qualche modo sentenzia
sulle altre due e si trova a essere poi congiunzione dei tre anelli, diventando
così ultimo ma primo allo stesso tempo.
Il pubblico resta vitale e in un
certo senso immune da eventuali critiche negative, a meno che non sia esso
stesso soggetto di notizia. Dovrebbe essere lo stesso anche per il giornalista,
nel momento in cui si limita a fare il suo lavoro semplicemente stando sul
posto e riportando una notizia, nel tentativo di informare chi non è presente
sulla scena cosa sta succedendo. Ma penso piuttosto che prima di tutto un
giornalista debba operare dei distinguo e saper contestualizzare ciò che sta
scrivendo, riuscendo a discernere lo scopo che quella notizia può avere, la
possibilità intrinseca di poter caricare il fatto in sé un’opinione o
semplicemente può limitarsi a essere un resoconto di ciò che è avvenuto. Enzo
Biagi, Indro Montanelli, Marco Travaglio e Massimo Fini sono solo alcuni dei
miei giornalisti preferiti, ma loro oltre a essere di un livello infinitamente
superiore al mio, sono anche legati per lo più a uno scenario in cui possono (e
anzi viene loro chiesto) di esprimere un’opinione. Io, che sono alle basi delle
basi di questo mestiere, mi sento per lo più un carpentiere del giornalismo,
appartenendo a un livello talmente primordiale che il mio ruolo si limita a far
si che i miei occhi siano gli occhi di tutte quelle persone che non osservano
materialmente ciò che succede, ed è per questo che all’interno di questa
testata sono state pubblicate informazioni riguardanti persone che a me personalmente
non piacciono (ed è a sua volta per questo motivo che ho deciso di iniziare
questo articolo con le spietate sentenze di cui sopra), ma che non ho né il
diritto né il dovere di trascurare, perché il CittadinoNews – che ha avuto un
personale successo all’interno di questa manifestazione – cerca di essere un
organo informativo e divulgativo che non può ancora permettersi gli standard di
riviste assolutamente superiori come “Limes” o “L’internazionale”.
Ed è quindi per questo che noi
del CittadinoNews – o per lo meno io – non snobberemo, non gireremo le spalle
alle persone che possono risultarci antipatiche (ma che hanno un proprio
ruolo), non considereremo pedantemente, ottusamente e stupidamente un festival
come quello di Giffoni una vetrina sporca e appannata evitando di trattarla, e
soprattutto non ci schiereremo da una parte o l’altra di una notizia perché ci
fa comodo a un uso e consumo personale e soprattutto locale. Siamo un progetto
che sta crescendo, e come prima cosa ha intenzione di scollarsi di dosso
innanzitutto etichette sociali e locali, che monitora ciò che ci accade intorno
e nelle immediate vicinanze senza però mai dimenticare che abbiamo orizzonti
lontani ai quali guardare (e la presenza di una rubrica dedicata all’Oriente
nella nostra rivista lo testimonia, non a caso).
Noi del CittadinoNews siamo un
gruppo di intelligenze che cerca di fare un percorso preciso in una sola
precisa maniera: mettendo in gioco le qualità e le competenze che ognuno di noi
possiede, senza sputare arroganza, senza rifiutare il confronto, senza
ritenerci migliori di altri e senza mai dimenticare che l’ultimo orizzonte che
possiamo osservare è quello del cielo.