Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

domenica 19 gennaio 2014

Articoli 2013 - operazione recupero (6)



28 / 7 / 2013

GIFFONI 2013, THE END

L’ultimo mio articolo su questa edizione del Giffoni Film Festival vorrei aprirlo – scusandomi con tutti, ma a breve spiegherò il perché – con quella che io ritengo la cosa meno giornalistica da fare, vale a dire esprimere spietatamente le mie opinioni senza presupporre un dialogo con il lettore, ma imponendogli come la penso e non attenendomi in pieno al mio lavoro. Faccio, se permettete, quello che fa il 90% delle persone e il 50% dei presunti giornalisti: sputo sentenze.
Per cui, in una maniera sintetica e crudele, scrivo qui cosa ne penso degli ospiti di questo Festival; lo faccio anche per scrollarmi di dosso un po’ di blando buonismo maturato lungo questa kermesse che proprio non c’entra niente con me.

Stefania Rocca: brava e bella. L’ho adorata in “Nirvana” di Salvatores.

Francesca Cavallin: niente di personale verso di lei, ma tranne “Boris”, “Romanzo criminale” e “Il mostro di Firenze”, la fiction italiana per me non esiste.

Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio: i soliti idioti. Nomen omen.

Paul Sorvino: era in “Rocketeer”, figata! Oh, no: era anche ne “L’onore e il rispetto”.

Mira Sorvino: come si può non amare Linda Ash in “Mighty Aphrodite” di Allen?

Elio, Faso, Cesareo: per quel che mi riguarda, le uniche persone degne di ricoprire rispettivamente la Presidenza della Repubblica, quella del Consiglio, e quella della Camera. A vita. E il patto con gli italiani deve essere che loro la smettono con X Factor e noi la smettiamo di scaricare gli album gratis dal web. P.S. Mangoni sindaco di tutte le città d’Italia.

Jessica Chastain: impeccabile nel ruolo di ospite del Giffoni Film Festival

Dario Argento: un bravo regista che ha smesso di fare film degni di questo nome nel 1993 dopo “Trauma”. Ma forse l’ospite più gentile, buono e disponibile del Festival. Escludendo astri come Saviano, si intende.

Mino Caprio: la voce di Peter Griffin, Boe Szyslak, Abe Simpson e Hubert Farnsworth. Cacchio volete di più?

Gabriele Caprio: bisogna aspettare che faccia qualcosa di più impegnativo per giudicarlo, se no adesso si rischia solo di scambiarlo per l’ex bambino della Kinder.

Luigi Di Maio: aperto, colloquiale, a tratti sognante. Un grillino con tutti i pregi e i difetti, insomma.

Alessandro Siani: un comico napoletano degli ultimi dieci anni, dunque una persona che impone la sua simpatia a furia di latrare e parlare con la zeppa in bocca.

Giovanni Allevi: presunzione, idiozia e mediocrità uniti in una faccia che invoca disperatamente di essere presa a schiaffi. Con un guanto di ferro di un’armatura medievale.

Logan Lerman: ragazzetto americano slavato. Però anche Di Caprio lo era ai tempi di “Titanic”: chissà, magari diventa pure lui quel dio di attore che è adesso.

Alexandra Daddario: la si vede e si pensa che se fosse stata la nostra D’Addario forse Berlusconi sarebbe stato quasi da giustificare. Comunque, visto che anche lei deve crescere, al massimo le si può augurare di diventare brava davvero, senza fare la fine di Kristen Stewart.

Filippo Nigro: bravo in quel che ha fatto e promettente per quel che farà. E poi ha recitato nel “RIS”, la fiction italiana la cui mediocrità porta inevitabilmente alla genialità più assoluta. Nel telefilm è riuscito a rimanere serio mentre recitava con il pupazzo Gnappo (alias Ugo Dighero), quindi è un signor attore.

Bandabardò: salve, siamo una band italiana che si ascolta nei licei classici e soprattutto nei parchi delle ville comunali mentre ti scoli una birretta e pensi che la vita, a seconda di quanti anni hai, sia “tranquilla”, “sciolta” o “scialla”.

Naya Rivera: commovente la sua riservatezza e un sobrio gusto nel non ostentarsi.

Max Gazzè: non lo seguo, ma non trovo perché parlarne male.

Guè Pequeno: inutile.

Fedez: inutile.

Ntò: inutile.

Salmo: inutile.

Ensi: devo proprio ripeterlo ancora?

Eddie Redmayne: very british. Mi piace.

Giancarlo Giannini: è Giancarlo Giannini. Punto.

Max Pezzali: l’unica cosa che mi fa pensare a lui con un sorriso è che ha introdotto (e successivamente cantato per intero) “Shpalman”. Non basta per riequilibrare un’intera carriera, ma aiuta.

Roberto Saviano: Carisma. Rispetto. Nobiltà. Peccato che lo leggano tanto gli intellettuali radical chic dell’ultima ora per fare bella figura nei caffè letterari.

Renzo Arbore: un eterno giovane, che non sempre è una cosa buona. Il suo cruccio più grande è quello di non essere abbastanza napoletano.

Sacha Baron Cohen: lo amo.

Alessandro Gassman: ha fatto un calendario. Ma anche un interessante “Riccardo III”, quest’anno.

Anna Maria Barbera: fossero stati Hanna e Barbera, sarebbe stato infinitamente meglio. Ma pure se fosse stata una tizia qualsiasi di nome Anna con un bottiglia di barbera in mano era meglio lo stesso.

Due parole, a conclusione, sul Festival in sé. E’ una versione in scala ridotta (ma non misera) di appuntamenti maggiori come Cannes, Venezia, o gli Oscar. Vale a dire, un qualcosa che è principalmente una vetrina espositiva che sta a metà fra il commerciale e il politico. Tuttavia funziona, fa promozione, attira persone in massa, produce introiti in un modo o nell’altro. E’ vero, si potrebbe pensare a progetti che hanno comunque respiri internazionali ma hanno un legame più forte con il cinema d’autore e la cultura come il Sundance o il Festival del cinema di Berlino, ma la via che si è scelta di intraprendere è questa (dicasi lo stesso per i succitati Oscar e Cannes), e a mio avviso è quella più adatta considerando la limitatezza della materia prima che servirebbe (la cultura) in un paese così ottuso e lento come l’Italia (abbiamo visto come la presenza di un Baron Cohen – che proprio commerciale non è – abbia quasi mandato in tilt l’opinione giornalistica: vogliamo ancora parlare di apertura mentale o preferiamo fare una bella autocritica?). Sempre ammesso che per cinema culturale non si intenda ancora proporre noiosi e stereotipati corto/mediometraggi in gelidi - crudi - bianco e nero, fatti da registi magrolini e barbuti che infilano un Bèla Tarr, Tarkovsky e Ozu in ogni mezza frase che dicono.

Detto ciò, concludo questo sfogo – non sarebbe possibile classificarlo altrimenti – per arrivare a toccare un tema che mi è stato a cuore in questi giorni, e cioè quello del senso del mio lavoro all’interno del Giffoni Film Festival. Ho avuto modo di confrontarmi con più realtà, principalmente con quella del pubblico, quella delle star, e infine con quella dei giornalisti. Queste tre realtà interagiscono tra di loro in un maniera assolutamente chimica e legante: l’una non può fare a meno dell’altra, altrimenti nessuna esisterebbe. Ognuna di queste realtà ha i suoi pregi e difetti, ma forse quella più rilevante rimane il pubblico, che è l’ultimo anello di questa catena, ma è anche il giudice che in qualche modo sentenzia sulle altre due e si trova a essere poi congiunzione dei tre anelli, diventando così ultimo ma primo allo stesso tempo.
Il pubblico resta vitale e in un certo senso immune da eventuali critiche negative, a meno che non sia esso stesso soggetto di notizia. Dovrebbe essere lo stesso anche per il giornalista, nel momento in cui si limita a fare il suo lavoro semplicemente stando sul posto e riportando una notizia, nel tentativo di informare chi non è presente sulla scena cosa sta succedendo. Ma penso piuttosto che prima di tutto un giornalista debba operare dei distinguo e saper contestualizzare ciò che sta scrivendo, riuscendo a discernere lo scopo che quella notizia può avere, la possibilità intrinseca di poter caricare il fatto in sé un’opinione o semplicemente può limitarsi a essere un resoconto di ciò che è avvenuto. Enzo Biagi, Indro Montanelli, Marco Travaglio e Massimo Fini sono solo alcuni dei miei giornalisti preferiti, ma loro oltre a essere di un livello infinitamente superiore al mio, sono anche legati per lo più a uno scenario in cui possono (e anzi viene loro chiesto) di esprimere un’opinione. Io, che sono alle basi delle basi di questo mestiere, mi sento per lo più un carpentiere del giornalismo, appartenendo a un livello talmente primordiale che il mio ruolo si limita a far si che i miei occhi siano gli occhi di tutte quelle persone che non osservano materialmente ciò che succede, ed è per questo che all’interno di questa testata sono state pubblicate informazioni riguardanti persone che a me personalmente non piacciono (ed è a sua volta per questo motivo che ho deciso di iniziare questo articolo con le spietate sentenze di cui sopra), ma che non ho né il diritto né il dovere di trascurare, perché il CittadinoNews – che ha avuto un personale successo all’interno di questa manifestazione – cerca di essere un organo informativo e divulgativo che non può ancora permettersi gli standard di riviste assolutamente superiori come “Limes” o “L’internazionale”.
Ed è quindi per questo che noi del CittadinoNews – o per lo meno io – non snobberemo, non gireremo le spalle alle persone che possono risultarci antipatiche (ma che hanno un proprio ruolo), non considereremo pedantemente, ottusamente e stupidamente un festival come quello di Giffoni una vetrina sporca e appannata evitando di trattarla, e soprattutto non ci schiereremo da una parte o l’altra di una notizia perché ci fa comodo a un uso e consumo personale e soprattutto locale. Siamo un progetto che sta crescendo, e come prima cosa ha intenzione di scollarsi di dosso innanzitutto etichette sociali e locali, che monitora ciò che ci accade intorno e nelle immediate vicinanze senza però mai dimenticare che abbiamo orizzonti lontani ai quali guardare (e la presenza di una rubrica dedicata all’Oriente nella nostra rivista lo testimonia, non a caso).
Noi del CittadinoNews siamo un gruppo di intelligenze che cerca di fare un percorso preciso in una sola precisa maniera: mettendo in gioco le qualità e le competenze che ognuno di noi possiede, senza sputare arroganza, senza rifiutare il confronto, senza ritenerci migliori di altri e senza mai dimenticare che l’ultimo orizzonte che possiamo osservare è quello del cielo.

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