Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

mercoledì 19 settembre 2018

I calchi di Pompei

Nel mio lavoro di archeologo è la domanda che più mi sento fare in assoluto, da grandi e piccoli. E talvolta quando rispondevo capitava che comunque non fosse del tutto chiaro. 
Fin quando non ho preso quella vecchia espressione popolare che dice "devo farti il disegno?" e l'ho applicata.
Per cui se vi siete sempre chiesti come nascono i calchi di Pompei, eccovi la risposta che più chiara di così non si può.



venerdì 14 settembre 2018

Che razza di vita



Sono uno di quelli (e siamo in tanti) che, preso alla sprovvista nella sua infanzia/adolescenza, ha deciso di diventare archeologo dopo aver visto Indiana Jones.
Salvo poi scoprire, cresciuto e iscritto all’università, che in effetti in questo campo i pietroni che rotolano scarseggiano, sempre meno i nazisti da combattere (oddio, con l'attuale vento politico non si sa mai) e la X - quando non intende il decimo secolo avanti o dopo Cristo - davvero non indica il punto dove scavare, soprattutto perché non la si trova mai. Più che altro ci toccano anni di studi e specializzazioni e se siamo abbastanza sfortunati, becchiamo pure un governo/i che dell’archeologia (o dei beni culturali) non se ne frega più di tanto (cfr. attualità), e nel frattempo, bloccati nella nostra professionalità, stiamo impotenti a guardare mura che si sgretolano e idioti di turno che ci dicono che quel muro caduto è solo un restauro moderno.
E dunque spesso mi è capitato di ritrovarmi seduto lungo via dell’abbondanza di Pompei a rimproverare mentalmente quella cricca di cinematografi che mi avevano fatto credere che da un momento all’altro alle mie spalle potesse sbucare un sicario con sciabolone e invece al massimo mi spunta una guida abusiva della camorra che mi chiede perché sto disegnando una piantina della domus di fronte (storia vera).
Quello dell’archeologo, come tanti altri, è un mestiere che richiede sacrificio e soprattutto disponibilità a ingoiare rospi in silenzio. Bisogna imparare a trarre soddisfazioni dalle piccole vittorie, quali il ritrovamento di un coccio, un rilievo fatto bene, uno scavo che procede senza intoppi, o l’intima felicità di aver fatto “parlare” un vaso non particolarmente grande, né particolarmente decorato, ma che comunque è stato testimone di anni lontani e carichi di civiltà.
C’è poi la soddisfazione di imbattersi nei grandi maestri del mestiere, di quelli che l’archeologia - una delle scienze più giovani in quanto risale praticamente a un secolo fa - l’hanno aiutata a nascere, costruendone piano piano le basi e le ossa. E la cosa più romantica e affascinante, è che si tratta di una scienza nata quasi esclusivamente dalla passione, dal sacrificio, dalla curiosità. E’ stata partorita nelle stanze piccole e un po’ in penombra delle università e ha respirato i venti del sogno e dell’immaginario. Uomini che studiavano anni interi piccole iscrizioni in lingue antiche, e che allo stesso tempo non sdegnavano di alzarsi dalle loro sedie per partire verso Creta, Rodi o Cos a bordo di fragili pescherecci locali, hanno scritto la storia di questa materia e con puro amore hanno riempito le vetrine dei musei.
E’, questa, tutta una storia che ha sapore italico più che italiano, perché i suoi protagonisti sono quei professori nostrani occhialuti un po’ antichi (e tristemente distanti) che a cavallo tra le due guerre mondiali non hanno smesso di amare la loro ricerca, non hanno affievolito la loro passione e hanno - mi piace immaginarli così - pianto in silenzio quando la bandiera nazista ha svettato sul Partenone. Queste persone straordinarie che già nei primi anni del Novecento non concepivano differenze o diversità sociali, perché ben sapevano - l’arte gliel’aveva svelato - che ciò che è microasiatico è greco e ciò che è greco è romano e infine ciò che è romano è europeo. Così hanno operato con entusiasmo nella ricerca storica delle nostre identità comuni in un periodo che faceva della differenza razziale il motivo per cui combattere.
Ecco, leggere questo testo di Maiuri (così come gli altri suoi) significa andare alla scoperta di questi uomini, vuol dire ricercare e scoprire queste antiche realtà. Leggere il libro è come approntare uno scavo: si spostano zolle affondando sempre più nel vivo della terra - il grande reliquiario della nostra storia - e si riportano alla luce le vite di personaggi spesso più grandi di noi.
La passione di Maiuri si avverte tutta, in quel suo scrivere caldo, forbito, un po’ aulico (per via della sua antichità) che apparteneva amabilmente ai nostri nonni. Questo libro si caratterizza nel racconto biografico, e forse si legge ancora più facilmente rispetto ad altri suoi testi più saggistici. E’ candido e onesto nel racconto, saggio nelle sue esperienze e schivo, seppure consapevole e fiero, nelle sue vittorie. E’ la narrazione di un uomo, oltre che di un professore, che conserva tutta l’ammirazione verso coloro dai quali ha appreso, anche nel momento in cui è lui il maestro da cui imparare. Persone così, purtroppo, oggi scrivono poco e sono spesso spintonate da caproni che si fanno strada grazie alla grandezza delle loro corna.
Quindi per dirla tutta, ora che sto sempre qui, davanti ad anonimi frammenti di cocci dai quali indovinare il vaso a cui appartenevano, è bello incontrare, di tanto in tanto, qualche archeologo senza cappello e senza frusta capace di risvegliare entusiasmi un po’ andati e ricordarmi, nonostante tutta l’ignoranza politica, le baronie e il parentalismo, che l’archeologia rimane pur sempre un gran bella avventura.



lunedì 10 settembre 2018

Quel certo mistero dell’arte






“Ogni blocco di pietra ha una statua dentro di sé ed è compito dello scultore scoprirla”. Ecco quanto scriveva Michelangelo a proposito della scultura. Una frase di una semplicità apparente ma che contiene almeno un migliaio di pagine saggistiche. Saggistiche e anticipatorie, soprattutto, perché su questo “scoprire”, sul tirare fuori la forma dall’informe, sul togliere per rivelare, sull’assenza e il venir meno si dedicheranno filosofi e autori del Novecento.
Basti pensare ai bellissimi versi di Montale, quelli che aprono il suo capolavoro "Ossi di seppia": “codesto solo oggi posso dirti / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Il vuoto e la negazione si fanno messaggio, il silenzio diventa racconto. Tema ripreso a piene mani – passando dalla poesia al teatro – da Carmelo Bene, che della poetica dell’assenza e del sottrarre si fece alfiere (emblematico più che mai il titolo di un suo spettacolo, "Un Amleto di meno"), mostrando a tutti quello che Maurizio Grande definì “la grandiosità del vano”.
Ma ritorniamo a Michelangelo e le sue forme prigioniere nel marmo. Al di là del lavoro di sottrazione cui si accenna, c’è nella frase l’enunciazione sottintesa di quello che è forse il più grande talento che un artista possa mai avere, la visionarietà. La capacità d’immaginare è la scintilla che mette in moto il processo di creazione; vedere un qualcosa senza averlo davanti è allo stesso tempo il pregio e il metodo di chi plasma qualcosa dal nulla. Personalmente ritengo questo momento forse il più bello che si può incontrare in arte. L’opera finita è completa e rivelata ma come già ebbe modo di far notare Umberto Eco è “opera chiusa”, vale a dire un’opera che ha smesso di lanciare messaggi perché ne ha scelto uno e si è esaurita in quello.
L’opera conclusa non è più il blocco di marmo grezzo, la tela ancora bianca, le prove di uno spettacolo teatrale. L’opera conclusa è il meleto gravido di frutti, quella ancora aperta è il terreno fertile pronto ad accogliere qualsiasi seme: non è meleto, né vigna, né campo di grano ma potenzialmente tutte queste cose pur non essendo niente. È la dimostrazione più concreta del concetto aristotelico di potenza pura che nella sua “Fisica” rappresenta il big bang filosofico che dà inizio alla catena sequenziale del cosmo.
La tela bianca mi piace per questo: è un limbo felice pronto a diventare tutto. È i puntini sospensivi quando stiamo per dire qualcosa. Ma la sua magia non finisce lì. Ancora parecchio lontana dal poter essere una traccia percorsa e finita, la tela bianca continua a essere campo di idee anche quando il pittore ha iniziato a tracciare le prime linee del quadro. Quella che in gergo tecnico si chiama “bozza” e che, variando da pittore a pittore, può essere più o meno precisa. Mi piace incerta, liminale, fuggevole. Fatta di linee e tratteggi appena accennati, che per capirci qualcosa devi fissarla a lungo, ma che a volte proprio il fissarla a lungo rischia di farne perdere il senso e ciò che un secondo prima si era certi di intravedere ecco che un secondo dopo non c’è già più, scomparso tra i capricci visionari dell’artista. Una sensazione quasi simile a quella descritta da Dante nel suo unico tentativo di vedere materialmente Dio, del quale perde l’idea nel preciso istante in cui riesce a concepirne la grandezza “sì come rota ch’igualmente è mossa”, così come una ruota gira.
Il non finito ha un fascino tutto suo. È dotato di un’imprecisione quasi accademica, ha tanto da insegnare. Ma al di là del discorso estetico in sé ho sempre ritenuto una bozza la fase in cui si può toccare con mano il processo artistico puro, dove si possono vedere con i propri occhi dogmi e princìpi misterici attraverso i quali l’arte rivela se stessa. Nel momento della bozza c’è il segreto più intimo e incomunicabile della genesi artistica. È un momento particolare, composto da umano e quasi divino allo stesso tempo, perché composto da volontà e caso, da studio e istinto, da ricerca e talento. Nella bozza c’è tutto quello che l’artista ha da dire tramite l’arte e tutto quello che l’arte ha dire tramite l’artista. C’è ciò che sarà per mano d’autore e ciò che è destinato a essere per mano divina. Dove per “divino” si intende quell’enigma che non trova (e non dovrebbe mai trovare) una spiegazione razionale all’origine del prodotto artistico, come se un’opera fosse al 95% umana e 5% proveniente da un sintagma che di volta in volta si può chiamare “caso”, “fortuna”, “imprevisto”, “coincidenza”, “talento” sino ad arrivare a identificarlo con Dio, se lo si desidera.
Ed è veramente così, questo 5% esiste davvero. Questo elemento di imprevedibilità è alla base della pittura zen, in particolare quell’aspetto incentrato sul disegno di un kanji o una figura (quella tipica, per esempio, è l’ensō, ovvero il cerchio) realizzata con un unico gesto senza mai sollevare il pennello dalla carta. Tutto si deve consumare all’interno di un movimento istintivo e minimo, pochi secondi senza pensare ma solo avendo un’idea in mentre. È un mistero, questo, che porta in sé quella componente dell’imprevisto che, a partire da Freud in poi, dialoga con l’istinto e l’inconscio, riallacciandosi alle forme primeve e più genuine dell’arte.
È lo stesso mistero che dà il nome a un interessante film-documentario su Pablo Picasso, un lavoro di stampo biografico che più che imprimere la vita e il pensiero dell’artista su celluloide, ne ha inciso il segno. Perché l’arte del pittore spagnolo è un discorso che ha a che fare molto con il primitivismo artistico, non a caso è celebre la sua frase “ho impiegato tutta una vita per imparare a dipingere come un bambino”.
"Il mistero Picasso", diretto da Henri-Georges Clouzot, è un lavoro particolarmente interessante e particolarmente verista: il progetto consiste nel puntare una macchina da presa sul retro di un foglio posto su un cavalletto orizzontale. Dall’altro lato del foglio Picasso punta il pennello e inizia a dipingere in modo che noi vediamo il disegno materializzarsi dal nulla, e di tale disegno ne seguiamo per intero la nascita, l’evoluzione e infine la chiusura in quanto opera finita. I materiali usati dal pittore sono vari, si va da un classico pennarello nero fino all’uso di inchiostri colorati che noi vediamo stendersi sul mare bianco della tela. Si parte da un punto, una linea, un cerchio e poi a questi si aggiungono altri punti, altre linee, altre forme. Da veri spettatori non capiamo quanto sta per accadere sul foglio, siamo solo consci di questi tratti di inchiostro che si intrecciano, curvano e seguono percorsi tanto liberi quanto precisi.
Ed è a questo punto che avviene il miracolo: questi ghirigori lentamente iniziano ad assumere il profilo di qualcosa, e quasi contemporaneamente ci si rende contro che non è così, non stanno assumendo nessun profilo perché ce l’hanno sempre avuto, semplicemente non si era notato. Ecco che mano mano si forma il disegno di un fiore, anzi di un mazzo di fiori, un mazzo di fiori colorati e posti in un vaso. Ma improvvisamente qualcosa cambia. Noi non lo possiamo vedere, perché quel qualcosa è cambiato nella mente di Picasso. O forse anche la sua mente non ne sa nulla, forse il qualcosa che è cambiato lo hanno fatto cambiare le sue mani, obbedendo d’istinto a un comando silenzioso dettato da quella stessa linea di inchiostro e dal mistero che si porta dietro. Fatto sta che quel vaso di fiori non è più un vaso di fiori, nel giro di letterali pochi secondi è diventato un gallo. Un gallo che dall’iniziale bianco e nero va coprendosi di colori che gli gocciolano addosso riempiendo gli spazi bianchi intorno a lui: l’arte ha preso forma e possesso del quadro.
La pittura respira sulla tela come un pesce è per natura a suo agio nel mare e nel mentre si contempla tutto questo, ancora una volta il mistero si affaccia oltre la punta del pennello e ne sovverte di nuovo gli schemi, imponendo – per capriccio o per libertà – un’ultima figura agli occhi di chi guarda, e tale figura è un volto umano che va a inglobare, mangiare e assorbire il gallo di prima, fin quando sulla tela non rimane che questo viso sorridente che pare disegnato da un bambino. E che in realtà è stato davvero disegnato da un bambino, la cui mente così aperta all’arte e alla sua inafferrabile verità è conservata all’interno di un corpo che all’epoca aveva settantacinque anni.
Ma questo non è che uno degli spezzoni del documentario, un disegno tra i tanti, in cui ogni volta, per ogni abbozzo di disegno, viene celebrato il sacro mistero dell’arte, quel mistero che trasforma una linea in un ponte e un ponte in una stella nel giro di pochi istanti e sotto i colpi di un talento sconfinato. La pittura di Picasso si presta perfettamente a quello che è tanto uno spettacolo quanto una lezione tecnica, quanto ancora una lezione filosofica e la pellicola cattura felicemente tutto ciò che c’è da dire in merito, realizzando così un’esperienza artistica notevole, illuminata e fertile nel momento in cui l’opera aperta dialoga con noi invitandoci ne suo polimorfismo, completa e chiusa quando è finita. Ma non per questo meno interessante.