Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

venerdì 14 settembre 2018

Che razza di vita



Sono uno di quelli (e siamo in tanti) che, preso alla sprovvista nella sua infanzia/adolescenza, ha deciso di diventare archeologo dopo aver visto Indiana Jones.
Salvo poi scoprire, cresciuto e iscritto all’università, che in effetti in questo campo i pietroni che rotolano scarseggiano, sempre meno i nazisti da combattere (oddio, con l'attuale vento politico non si sa mai) e la X - quando non intende il decimo secolo avanti o dopo Cristo - davvero non indica il punto dove scavare, soprattutto perché non la si trova mai. Più che altro ci toccano anni di studi e specializzazioni e se siamo abbastanza sfortunati, becchiamo pure un governo/i che dell’archeologia (o dei beni culturali) non se ne frega più di tanto (cfr. attualità), e nel frattempo, bloccati nella nostra professionalità, stiamo impotenti a guardare mura che si sgretolano e idioti di turno che ci dicono che quel muro caduto è solo un restauro moderno.
E dunque spesso mi è capitato di ritrovarmi seduto lungo via dell’abbondanza di Pompei a rimproverare mentalmente quella cricca di cinematografi che mi avevano fatto credere che da un momento all’altro alle mie spalle potesse sbucare un sicario con sciabolone e invece al massimo mi spunta una guida abusiva della camorra che mi chiede perché sto disegnando una piantina della domus di fronte (storia vera).
Quello dell’archeologo, come tanti altri, è un mestiere che richiede sacrificio e soprattutto disponibilità a ingoiare rospi in silenzio. Bisogna imparare a trarre soddisfazioni dalle piccole vittorie, quali il ritrovamento di un coccio, un rilievo fatto bene, uno scavo che procede senza intoppi, o l’intima felicità di aver fatto “parlare” un vaso non particolarmente grande, né particolarmente decorato, ma che comunque è stato testimone di anni lontani e carichi di civiltà.
C’è poi la soddisfazione di imbattersi nei grandi maestri del mestiere, di quelli che l’archeologia - una delle scienze più giovani in quanto risale praticamente a un secolo fa - l’hanno aiutata a nascere, costruendone piano piano le basi e le ossa. E la cosa più romantica e affascinante, è che si tratta di una scienza nata quasi esclusivamente dalla passione, dal sacrificio, dalla curiosità. E’ stata partorita nelle stanze piccole e un po’ in penombra delle università e ha respirato i venti del sogno e dell’immaginario. Uomini che studiavano anni interi piccole iscrizioni in lingue antiche, e che allo stesso tempo non sdegnavano di alzarsi dalle loro sedie per partire verso Creta, Rodi o Cos a bordo di fragili pescherecci locali, hanno scritto la storia di questa materia e con puro amore hanno riempito le vetrine dei musei.
E’, questa, tutta una storia che ha sapore italico più che italiano, perché i suoi protagonisti sono quei professori nostrani occhialuti un po’ antichi (e tristemente distanti) che a cavallo tra le due guerre mondiali non hanno smesso di amare la loro ricerca, non hanno affievolito la loro passione e hanno - mi piace immaginarli così - pianto in silenzio quando la bandiera nazista ha svettato sul Partenone. Queste persone straordinarie che già nei primi anni del Novecento non concepivano differenze o diversità sociali, perché ben sapevano - l’arte gliel’aveva svelato - che ciò che è microasiatico è greco e ciò che è greco è romano e infine ciò che è romano è europeo. Così hanno operato con entusiasmo nella ricerca storica delle nostre identità comuni in un periodo che faceva della differenza razziale il motivo per cui combattere.
Ecco, leggere questo testo di Maiuri (così come gli altri suoi) significa andare alla scoperta di questi uomini, vuol dire ricercare e scoprire queste antiche realtà. Leggere il libro è come approntare uno scavo: si spostano zolle affondando sempre più nel vivo della terra - il grande reliquiario della nostra storia - e si riportano alla luce le vite di personaggi spesso più grandi di noi.
La passione di Maiuri si avverte tutta, in quel suo scrivere caldo, forbito, un po’ aulico (per via della sua antichità) che apparteneva amabilmente ai nostri nonni. Questo libro si caratterizza nel racconto biografico, e forse si legge ancora più facilmente rispetto ad altri suoi testi più saggistici. E’ candido e onesto nel racconto, saggio nelle sue esperienze e schivo, seppure consapevole e fiero, nelle sue vittorie. E’ la narrazione di un uomo, oltre che di un professore, che conserva tutta l’ammirazione verso coloro dai quali ha appreso, anche nel momento in cui è lui il maestro da cui imparare. Persone così, purtroppo, oggi scrivono poco e sono spesso spintonate da caproni che si fanno strada grazie alla grandezza delle loro corna.
Quindi per dirla tutta, ora che sto sempre qui, davanti ad anonimi frammenti di cocci dai quali indovinare il vaso a cui appartenevano, è bello incontrare, di tanto in tanto, qualche archeologo senza cappello e senza frusta capace di risvegliare entusiasmi un po’ andati e ricordarmi, nonostante tutta l’ignoranza politica, le baronie e il parentalismo, che l’archeologia rimane pur sempre un gran bella avventura.



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