Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

martedì 22 luglio 2014

E se potessi, la bacerei



Ha i capelli castani, leggermente mossi, che le ricadono fin sopra le spalle. Occhi chiari, un bel viso pulito e fresco.
La vedo spesso passeggiare lungo il mare, con la brezza carica di salsedine, il sole che pizzica o sotto l’ombra dei grossi alberi che costeggiano la via. La conosco – di vista – da qualche anno. Incontrata sempre e solo durante queste passeggiate lunghe e silenziose. Da sola. Sempre da sola.
Lei ha una gamba offesa, per cui il suo passo è un po’ zoppo e un po’ strascicato.
Fa avanti e indietro per quel chilometrico lungomare camminando piano, che a vederla sembra sia fragile come il meccanismo di un orologio e pensi che basterebbe un inciampo o una botta qualsiasi per farla cadere in pezzi.
E pensi soprattutto all’imbarazzo che potrebbe provare, nell’essere così lenta in mezzo a quel lungo vialone assolato, e ti chiedi se è mai possibile che lei ne veda la fine.
E invece la vede. La vede eccome, perché fa avanti e indietro piano piano, ma ad arrivare dove vuole ci arriva. Perché a momenti quasi barcolla, ma in realtà è che vive di un equilibrio tutto suo, che per lei funziona tanto quanto il nostro va bene per noi. Il suo passo è lento ma non incerto; la gamba è storta, ma il viso è dritto e guarda in avanti. Ed è un bel viso.

A volte mi chiedo cosa pensi quando intorno a sé vede sciamare coppiette pomeridiane e aitanti corridori che divorano la strada metro dopo metro. Chissà se lei invidi più una gamba lunga e atletica o la presenza di qualcuno accanto.
Ma forse è tutto nella mia testa. Forse sono io che non smetto di innamorarmi delle fioraie di Chaplin, e ogni ragazza che mi piace ha sempre quella dolce tristezza dei suoi film. Per quel che ne posso sapere, lei magari è più felice di me; neanche ci pensa alla sua situazione.

E tuttavia questo post non vuole essere una retorica frittura di parole. Non voglio dipingerla come una madonna, una ragazza sognante, dolce e sfortunata. Oggi per me è un modello, perché lei ha qualcosa da insegnarmi, con quei suoi occhi puliti e fieri, decisi ma non freddi, forti ma non rabbiosi.
Oggi lei mi ha spiegato ancora una volta cos’è la dignità. E io la amo per questo.

sabato 12 luglio 2014

Pezzi di cornicione e pezzi di merda






E’ una storia tutta napoletana quella che sta accadendo in questi giorni. E non è tale solo per un fattore topografico, ma per tutte le sottili sfumature che si porta dietro come uno storpio lascia un’impronta diversa sulla sabbia.

Il 5 luglio scorso Salvatore Giordano, un ragazzo di 14 anni, è stato colpito in testa da un pezzo di cornicione della Galleria Umberto I di Napoli; andato in coma a causa della ferita, muore in ospedale il 9 dello stesso mese. Seguono giorni di pesante elettricità a causa dello sconcerto ma soprattutto della reazione delle istituzioni che nella fattispecie è assolutamente simile a quella di un gruppo di galline starnazzanti all’interno di un pollaio piccolo e angusto. Doverosamente, il sindaco De Magistris proclama il lutto cittadino – il secondo, come vedremo, nel giro di pochi giorni – e intanto vigili del fuoco fasciano e transennano monumenti su monumenti (la stessa Galleria Umberto I, la Galleria Principe, il Palazzo Reale). Durante questo intervento di manovalanza (l’unica cosa che abbia un briciolo di dignità in tutta questa storia), i furbi tecnocrati statali non esitano a dare il via al giochino delle tre carte giuridiche: bisogna trovare il responsabile (leggi: capro espiatorio) della manutenzione del cornicione crollato, la patata bollente che il condominio sito nella Galleria e il Comune di Napoli si stanno passando di mano in mano. Nel mentre, qualche altro crollo - stavolta dalla facciata del Palazzo Reale - mette un po' di pepe al culo della stessa giunta che tempo fa è stata messa in difficoltà da gang di ragazzini che vandalizzavano (vandalizzano?) gli edifici di piazza del Plebiscito. Due giorni fa, la tarantella (ve l’ho detto che questa era una storia tutta napoletana) ha visto la Procura di Napoli decretare che il Comune è parte offesa in questa vicenda, anche se, in una maniera italianamente assurda, tre delle quarantacinque persone che hanno ricevuto avvisi di garanzia per l'accaduto sono tecnici del comune. Essendo questa la fase preliminare, staremo a vedere come si evolverà il tutto, e ancora una volta avremo gli occhi bassi e il cappello in mano aspettando che giustizia sarà fatta (e rimanere probabilmente delusi). Con queste premesse, infatti, il Comune potrebbe addirittura costituirsi come parte civile, e tutti noi potremmo beneficiare del paradosso costituito dall'essere tale in un evento del tutto incivile.

Quanto sopra appartiene ai giornali e al mondo dell’informazione in generale. Ciò che mi interessa, invece, risiede altrove.

Mi interessa soprattutto l’ipocrisia. L’ipocrisia di un Comune – e per non essere ipocrita a mia volta a questo Comune daremo dei nomi, e cioè De Magistris e la sua giunta – pronto a piangere i suoi morti ma non a prevenirli, pronto a trasformare marciapiedi in immaginarie piste ciclabili ma non a costruirle davvero, pronto a esaltarsi con le vele dell’America’s Cup ma non a fare qualcosa per le vele di Scampia, pronto, infine, ad aprire vitali ZTL ma ugualmente pronto a chiuderle (tra l’altro, uno dei motivi per cui parte della ZTL di via Caracciolo è stata chiusa è proprio a causa del crollo di una palazzina).

E siccome subito dopo le istituzioni il mio peggior nemico è l’umanità stupida, mi interessa l’ipocrisia delle persone. Di quelle che iniziano a riempire il loro facebook, twitter, instagram o qualsiasi altro perditempo informatico con post populisti noiosamente retorici e foto di transenne e calcinacci; persone pure e caritatevoli che fino a un minuto prima erano state costrette a vivere in una stanza buia e insonorizzata con ventiquattro fette di prosciutto sugli occhi e solo adesso che hanno riacquistato la vista iniziano a indignarsi contro un po’ chiunque.

Fin qui nessun problema: siamo italiani, ergo siamo il paese che eccelle nel suo saper piangere i morti. Siamo scordarelli e – appunto – intimamente ipocriti; preferiamo il pettegolezzo all’informazione, e un problema ci interessa in maniera perfettamente proporzionale alla sua capacità di tangerci.

Ciò che invece mi dà veramente fastidio è invece l’assoluta atarassia, il tutto fumo italico che ci è consono, la ciarla a vuoto, l’impossibilità di far seguire un gesto alla rabbia. Perché – che lo vogliate o meno – è questo il grande problema dell’Italia: non ha una valvola di sfogo (o forse semplicemente non ne ha bisogno, questo devo ancora capirlo). Gli italiani si indignano, sputano veleno, minacciano, fanno rumore. E poi all’improvviso tutto tace, anestetizzato da un qualcosa di nuovo, un nuovo pendolo sul quale fissare la loro attenzione. Quanti dei succitati popolani di facebook & co. si ricordano ancora dei crolli di Pompei (tanto per citare un esempio a me caro, ma potrei farne altri mille) o della terra dei fuochi? Pochi, quasi nessuno. E il motivo di maggiore sconforto è constatare che roba del genere non viene ricordata semplicemente perché passa di moda nei social network.

Laddove si auspicherebbe una folla rabbiosa che lancia sassi e proteste contro le istituzioni, c’è invece un mucchietto di “mi piace”. Dove dovrebbe esserci un’auto blu ribaltata, c’è un malinconico mazzo di fiori in copertina. Mani che a buon diritto dovrebbero stringere bastoni e spranghe, impugnano ben saldi i loro mouse. O mouses, se siete dei puristi.

Perché invoco folle, auto blu ribaltate, sassi e bastoni? Per l’unico motivo per cui si dovrebbe permettere una cosa del genere. Per giustizia. Dove “giustizia” non vuole intendere la macelleria messicana (si spera che almeno questo punto di civilizzazione l’abbiamo raggiunto), ma quel tipo di giustizia che deve spaventare le cariche istituzionali, deve far tremare i palazzi del potere perché, che lo sappiate o meno, è così che dovrebbe funzionare la democrazia. Sono i molti che giudicano i pochi. Soprattutto quando questi pochi ballano tammorriate sul corpo di un ragazzo di 14 anni, colpevole di stare camminando per strada.

Come se quella passeggiata fosse una responsabilità di cui ha accettato il rischio.

Lo stesso rischio che inconsapevolmente ha accettato Ciro Esposito, il tifoso napoletano coinvolto negli scontri pre-partita della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina e morto lo scorso 25 giugno dopo un periodo di coma (il precedente lutto cittadino cui accennevo sopra). Il paradigma è lo stesso. Vuoi tifare? Sappi che potresti morire, allora. Vuoi fare una passeggiata lungo la via più nota di Napoli? Sappi che potresti morire, allora.

Il tutto è già agghiacciante così, ma lo diventa maggiormente se si pensa che in un’Italia che da tempo conosce il problema dei tifosi ultras (e che ovviamente dimentica a ogni inizio campionato) essere coinvolti in uno scontro – anche mortale – è davvero una cosa plausibile, mentre invece morire per il crollo di un bene del Comune (nonostante ora come ora quest’ultimo stia tentando di scrollarselo di dosso, la Galleria resta tale) è forse di quanto più assurdo si possa immaginare. Morire perché si attraversa una strada sembra quasi più logico. E a me la morte di Salvatore – la sua totale illogicità – spaventa e angoscia oltre ogni dire per il semplice e puro fatto di essere letteralmente inconcepibile.

Ma questa, come dicevo all’inizio, è una storia napoletana. Vedremo prefiche piangere a dismisura, commoventi fotomontaggi con il volto del morto di turno incorniciato da fiori, giornalisti che rosicchiano carogne qua e là, ipocriti benpensanti che invocheranno dei non meglio precisati restauri per poi dimenticarsene puntualmente e la giunta comunale ballerà un po’ di tiptap tra il facile populismo e lo scaricabarile giudiziario. Sarà tutta una farsa, ambientata tra lo “scurdammece o passato” e il “domani è nu juorno buono”, e ad applaudire saranno tutti coloro che – manco fossero pagati a farlo – non si stancano di ripetere il mantra ottuso di una Napoli che resta una terra di meraviglie, come se il grado di civiltà di una cittadina si misuri in paesaggi con mare e vulcani, e non in vivibilità.