E’ una storia tutta napoletana quella che sta accadendo in
questi giorni. E non è tale solo per un fattore topografico, ma per tutte le
sottili sfumature che si porta dietro come uno storpio lascia un’impronta diversa
sulla sabbia.
Il 5 luglio scorso Salvatore Giordano, un ragazzo di 14
anni, è stato colpito in testa da un pezzo di cornicione della Galleria Umberto
I di Napoli; andato in coma a causa della ferita, muore in ospedale il 9 dello stesso mese. Seguono giorni di pesante elettricità a causa dello sconcerto ma
soprattutto della reazione delle istituzioni che nella fattispecie è
assolutamente simile a quella di un gruppo di galline starnazzanti all’interno
di un pollaio piccolo e angusto. Doverosamente, il sindaco De Magistris proclama
il lutto cittadino – il secondo, come vedremo, nel giro di pochi giorni – e
intanto vigili del fuoco fasciano e transennano monumenti su monumenti (la
stessa Galleria Umberto I, la Galleria Principe, il Palazzo Reale). Durante
questo intervento di manovalanza (l’unica cosa che abbia un briciolo di dignità
in tutta questa storia), i furbi tecnocrati statali non esitano a dare il via
al giochino delle tre carte giuridiche: bisogna trovare il responsabile (leggi:
capro espiatorio) della manutenzione del cornicione crollato, la patata
bollente che il condominio sito nella Galleria e il Comune di Napoli si stanno
passando di mano in mano. Nel mentre, qualche altro crollo - stavolta dalla facciata del Palazzo Reale - mette un po' di pepe al culo della stessa giunta che tempo fa è stata messa in difficoltà da gang di ragazzini che vandalizzavano (vandalizzano?) gli edifici di piazza del Plebiscito. Due giorni fa, la tarantella (ve l’ho detto che
questa era una storia tutta napoletana) ha visto la Procura di Napoli decretare
che il Comune è parte offesa in questa vicenda, anche se, in una maniera italianamente assurda, tre delle quarantacinque persone che hanno ricevuto avvisi di garanzia per l'accaduto sono tecnici del comune. Essendo questa la fase
preliminare, staremo a vedere come si evolverà il tutto, e ancora una volta avremo gli occhi bassi e il cappello in mano aspettando che giustizia
sarà fatta (e rimanere probabilmente delusi). Con queste premesse, infatti, il
Comune potrebbe addirittura costituirsi come parte civile, e tutti noi potremmo
beneficiare del paradosso costituito dall'essere tale in un evento del tutto incivile.
Quanto sopra appartiene ai giornali e al mondo dell’informazione
in generale. Ciò che mi interessa, invece, risiede altrove.
Mi interessa soprattutto l’ipocrisia. L’ipocrisia di un
Comune – e per non essere ipocrita a mia volta a questo Comune daremo dei nomi,
e cioè De Magistris e la sua giunta – pronto a piangere i suoi morti ma non a
prevenirli, pronto a trasformare marciapiedi in immaginarie piste ciclabili ma
non a costruirle davvero, pronto a esaltarsi con le vele dell’America’s Cup ma
non a fare qualcosa per le vele di Scampia, pronto, infine, ad aprire vitali
ZTL ma ugualmente pronto a chiuderle (tra l’altro, uno dei motivi per cui parte
della ZTL di via Caracciolo è stata chiusa è proprio a causa del crollo di una
palazzina).
E siccome subito dopo le istituzioni il mio peggior nemico è
l’umanità stupida, mi interessa l’ipocrisia delle persone. Di quelle che
iniziano a riempire il loro facebook, twitter, instagram o qualsiasi altro
perditempo informatico con post populisti noiosamente retorici e foto di
transenne e calcinacci; persone pure e caritatevoli che fino a un minuto prima
erano state costrette a vivere in una stanza buia e insonorizzata con
ventiquattro fette di prosciutto sugli occhi e solo adesso che hanno
riacquistato la vista iniziano a indignarsi contro un po’ chiunque.
Fin qui nessun problema: siamo italiani, ergo siamo il paese
che eccelle nel suo saper piangere i morti. Siamo scordarelli e – appunto –
intimamente ipocriti; preferiamo il pettegolezzo all’informazione, e un
problema ci interessa in maniera perfettamente proporzionale alla sua capacità
di tangerci.
Ciò che invece mi dà veramente fastidio è invece l’assoluta
atarassia, il tutto fumo italico che ci è consono, la ciarla a vuoto,
l’impossibilità di far seguire un gesto alla rabbia. Perché – che lo vogliate o
meno – è questo il grande problema dell’Italia: non ha una valvola di sfogo (o
forse semplicemente non ne ha bisogno, questo devo ancora capirlo). Gli
italiani si indignano, sputano veleno, minacciano, fanno rumore. E poi
all’improvviso tutto tace, anestetizzato da un qualcosa di nuovo, un nuovo
pendolo sul quale fissare la loro attenzione. Quanti dei succitati popolani di
facebook & co. si ricordano ancora dei crolli di Pompei (tanto per citare
un esempio a me caro, ma potrei farne altri mille) o della terra dei fuochi?
Pochi, quasi nessuno. E il motivo di maggiore sconforto è constatare che roba
del genere non viene ricordata semplicemente perché passa di moda nei social
network.
Laddove si auspicherebbe una folla rabbiosa che lancia sassi
e proteste contro le istituzioni, c’è invece un mucchietto di “mi piace”. Dove
dovrebbe esserci un’auto blu ribaltata, c’è un malinconico mazzo di fiori in
copertina. Mani che a buon diritto dovrebbero stringere bastoni e spranghe,
impugnano ben saldi i loro mouse. O mouses, se siete dei puristi.
Perché invoco folle, auto blu ribaltate, sassi e bastoni?
Per l’unico motivo per cui si dovrebbe permettere una cosa del genere. Per
giustizia. Dove “giustizia” non vuole intendere la macelleria messicana (si
spera che almeno questo punto di civilizzazione l’abbiamo raggiunto), ma quel
tipo di giustizia che deve spaventare le cariche istituzionali, deve far
tremare i palazzi del potere perché, che lo sappiate o meno, è così che
dovrebbe funzionare la democrazia. Sono i molti che giudicano i pochi.
Soprattutto quando questi pochi ballano tammorriate sul corpo di un ragazzo di
14 anni, colpevole di stare camminando per strada.
Come se quella passeggiata fosse una responsabilità di cui
ha accettato il rischio.
Lo stesso rischio che inconsapevolmente ha accettato Ciro
Esposito, il tifoso napoletano coinvolto negli scontri pre-partita della finale
di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina e morto lo scorso 25 giugno dopo un
periodo di coma (il precedente lutto cittadino cui accennevo sopra). Il paradigma è lo stesso. Vuoi tifare? Sappi che potresti
morire, allora. Vuoi fare una passeggiata lungo la via più nota di Napoli?
Sappi che potresti morire, allora.
Il tutto è già agghiacciante così, ma lo diventa
maggiormente se si pensa che in un’Italia che da tempo conosce il problema dei
tifosi ultras (e che ovviamente dimentica a ogni inizio campionato) essere
coinvolti in uno scontro – anche mortale – è davvero una cosa plausibile,
mentre invece morire per il crollo di un bene del Comune (nonostante ora come
ora quest’ultimo stia tentando di scrollarselo di dosso, la Galleria resta
tale) è forse di quanto più assurdo si possa immaginare. Morire perché si
attraversa una strada sembra quasi più logico. E a me la morte di Salvatore –
la sua totale illogicità – spaventa e angoscia oltre ogni dire per il semplice
e puro fatto di essere letteralmente inconcepibile.
Ma questa, come dicevo all’inizio, è una storia napoletana.
Vedremo prefiche piangere a dismisura, commoventi fotomontaggi con il volto del
morto di turno incorniciato da fiori, giornalisti che rosicchiano carogne qua e
là, ipocriti benpensanti che invocheranno dei non meglio precisati restauri per
poi dimenticarsene puntualmente e la giunta comunale ballerà un po’ di tiptap
tra il facile populismo e lo scaricabarile giudiziario. Sarà tutta una farsa,
ambientata tra lo “scurdammece o passato” e il “domani è nu juorno buono”, e ad
applaudire saranno tutti coloro che – manco fossero pagati a farlo – non si
stancano di ripetere il mantra ottuso di una Napoli che resta una terra di
meraviglie, come se il grado di civiltà di una cittadina si misuri in paesaggi con
mare e vulcani, e non in vivibilità.