Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

giovedì 27 febbraio 2014

"Pompei" di Paul Anderson - recensione del film






Se c’è una cosa che sarebbe potuta essere chiara e pacifica a priori, è che un archeologo non dovrebbe vedere “Pompei”. Dopo la visione dello stesso, è stato appurato che il divieto va esteso anche a tutti coloro che frequentano film e telefilm da un po’ di tempo e quindi cercano sceneggiature con un minimo di storia dentro.

Il plot narrativo di “Pompei” di Paul Anderson è né più né meno che quello di “Titanic” di Cameron. C’è lui, bello e giusto ma pezzente e disgraziato, c’è lei, signorina di nobile famiglia ma con la preferenza di ispide barbe piuttosto che un mento rasato, c’è il pretendente di lei, ricco e potente ma perfido e antipatico. E infine c’è esso, vale a dire il disastro che spazza via baracca e burattini.

Ma il problema non è questo, perché chiaramente una persona con un po’ di spirito critico non va a vedere il film per potersi perdere in trame e sottotrame condite da recitazioni grandiose. Si va semplicemente per godersi l’ennesimo sfoggio di combattimenti, di gladiatori che zompettano qua e là regalando spettacolari fendenti ed esigendo doverose ovazioni da parte della folla estasiata. Se poi magari accanto a tutto ciò ci mettete pure il Vesuvio che spacca mezzo mondo, allora direi che siamo a posto.

E invece no. Speranze disattese. I combattimenti non sono così entusiasmanti e seppure qualcosina si salva, è assolutamente poca roba (soprattutto non si capisce come si possano fare scontri noiosi dopo “300” o la serie tv “Spartacus”, che sono entrambi il motivo principale per cui oggi ci sorbiamo questo film). L’eruzione invece è un pastiche di fenomeni sismici e pirotecnici che scordatevi pure abbiano a che fare con quello che è effettivamente successo nel 79 d.C.

Comunque è tutto il film a essere pastiche. Le citazioni dal “Gladiatore” (la ricostruzione gladiatoria di una battaglia romana che però finisce a favore dei “barbari”, il compagno gladiatore di colore che aspetta di ricongiungersi con la famiglia che Roma gli ha ucciso) ci sono e si sentono fino in fondo.  Le navi che si inclinano e alle quali i passeggeri tentano di rimanere appesi ci ricordano il già citato “Titanic” (nonché la Concordia di Schettino). Una spruzzatina di “2012” qua è là, e infine il protagonista Miro che dimentica in che film siamo e diventa l’uomo che sussurrava ai cavalli: grazie al suo tocco gli equini trovano la calma e la pace dei sensi (uno all’inizio del film, in particolare).

Giudizio in due parole: a me non piace sconsigliare di vedere un film, ma se ci andate, sappiate che potreste rimanere molto delusi.



Io però la strombazzata da archeologo la devo fare, perché in qualche modo devo vendicarmi di questo film per cui sappiate che:

-        -  il Vesuvio che vedete nel film non è esatto (prima dell’eruzione aveva una punta più conica, tant’è che i romani pensavano fosse un monte, fin quando non si sono trovati ondate piroclastiche in faccia)

-           -  è difficile che i gladiatori si ammazzassero tra di loro. Ebbene si, mi spiace rovinarvi l’immaginario virile e cruento, ma un combattimento gladiatorio era una cosa più simile a un incontro di boxe, il vincitore si decideva “ai punti” e c’era pure tanto di arbitro che faceva il suo lavoro. E il pollice in su e in giù è una cosa che non esisteva per nulla, se l’è inventata Hollywood.

-              -  gli edifici di Pompei non sono stati distrutti a colpi di palle di fuoco, ma perché il peso dell’infinita pioggia di lapilli (durata circa 12 ore e che non si vede per nulla nel film) accumulatosi sui tetti li ha sfondati.

-             - l’anfiteatro di Pompei (questa è la fesseria più grossa di tutto il film) NON ha una zona sotterranea provvista di celle o vani per permettere l’elevazione di carrelli come per esempio ha il Colosseo.



Detto questo, mi viene da consigliare al signor Paul Anderson, che vantava ben sei anni di studi per la preparazione di questo film, di risparmiarsi ulteriori investimenti di tempo. E che comunque, se proprio vuole, bastano un paio di mesi per preparare un esame decente al corso di laurea in archeologia classica alla Federico II di Napoli.
     Ma alla fine è meglio che non lo faccia. Magari poi si imbatte nella storia di Pozzuoli e va a finire che gira un film con un San Gennaro muscoloso e fighissimo che strozza un leone nell’anfiteatro maggiore mentre la città inizia ad affondare.

mercoledì 26 febbraio 2014

Superficialità in salsa rap

Le persone muoiono avvelenate, tumori si gonfiano all'interno di bambini colpevoli solo di essere nati nel posto sbagliato del mondo, la camorra 20-30 anni fa operava con il tacito consenso/assenso dei proprietari terrieri in una sofferta ma anche ipocritamente interessata complicità di colpa, il governo - nelle persone dei rappresentati politici dell'ultimo decennio - permetteva tutto questo tacendo e quasi collaborando con le attività criminali, in un gioco di colpe e pene che oggi ha mietuto la sua vittima più grande: il futuro di tutta una terra.

Alla luce di tutto ciò - di questa tragedia dal volto disumano e deturpato -, il meglio che si riesce a fare è dire che "oggi è nu juorno buono", banalità superficiale degna del peggiore qualunquismo, prodotto puro di quella scuola di pensiero idiota che ha partorito il "chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scurdammece o passato", filosofia di vita che io ho da sempre letto come il manifesto ufficiale delle mafiosità più omertosa e ignorante, con cui la Napoli più cretina ha costruito le ossa che tengono su la parte peggiore del suo popolo.
E giustamente una banalità idiota del genere trova il suo siparietto ideale nella cazzata italica mondana per eccellenza, il festival di Sanremo. Tutto torna, insomma.

Caro Rocco idiota, le tue quattro banalità che tanto piacciono al popolino italiota che adora vivere con la testa immersa nell'ovatta e nel buonismo, valle a canticchiare alle madri e i padri dei bambini morti di cancro, magari vai a riempire il silenzio assordante di re Giorgio Napolitano che hanno avuto come risposta alle loro disperate richieste di aiuto. O magari ti pigliano a randellate, perché forse per molte persone che non hanno voglia di mettersi a fare i cretini sui palchi per poter vincere una statuetta non è per niente nu juorno buono.



















E ora canta quel cesso di canzone davanti a queste foto.

lunedì 17 febbraio 2014

L'estetica del marmo - "la grande bellezza" di Paolo Sorrentino







Per fortuna c’ha pensato un italiano a togliere via lo “sgaro” dal volto di Roma, lasciatogli da quell’infelice lavoro che porta il titolo di “To Rome with love” e la regia di un Woody Allen che ci auguriamo di non rivedere mai più così sottotono. Avevamo lasciato la città eterna sotto una patinatura da cartolina e la ritroviamo al suo meglio (e al suo peggio) in questo gioiello di Sorrentino. Nomen-omen, il film si stende sulla pellicola così come Roma stessa si distende lungo l’Italia. La sua presenza si offre ai visitatori come una vera grande bellezza, immobile, imponente, statuaria. Avvolta da un’area quasi sacrale e testimone silenziosa di tutto un fiume di vite che le scorre sotto gli occhi. Durante i secoli, Roma ha visto tutti i popoli d’Europa e del mondo, e se tempo fa erano armati di lance e archibugi, oggi sono armati di macchine fotografiche e videocamere.
Il film di Sorrentino nasce innanzitutto come un ritratto di Roma, dove Roma indica l’Italia, e l’Italia è esattamente quel “paese pazzo e bellissimo” che Sorrentino ha salutato ricevendo il Golden Globe come miglior film straniero. Pazza e bellissima. Matta e innamorata. Triste e sognante. E’ questa l’Italia/Roma del regista. Chi vede nel film uno spaccato di ipocrisia, di denuncia, sbaglia nel profondo perché vede soltanto mezzo film (e forse neanche quello). Ne “La grande bellezza” più che la condanna emerge lo stridio forte di due realtà di noi stessi ormai quasi del tutto compenetrate. Non c’è l’accusa di un lato turpe della mondanità romana come non c’è un vero e proprio elogio della sua superiorità culturale e artistica: sono due aspetti che si guardano ferocemente negli occhi, ma che non si dividono mai. Queste due nature le abbiamo viste già nei ritratti a volte grotteschi dei personaggi felliniani: là dove il regista de “La dolce vita” ha fermato il suo cinema, da lì riparte il discorso di Sorrentino e su tutto pesa la direzione che l’Italia ha imboccato dagli anni ‘60 a oggi, nel bene e nel male. Ma Sorrentino non imita Fellini. Semplicemente, lo fa respirare regalandogli (e regalandoci) l’aria di Roma, il frusciare di tende delle grandi finestre di palazzo Altemps, lo svolazzare di tonache quasi a vessillo di una celestialità diafana e sottile. Chi cerca un film in qualche modo militante, perderà tutta la raffinata poetica presente a grandi manciate, resa a furia di eleganti e calibratissime inquadrature, che talvolta planano dall’alto (come le sequenze iniziali del Gianicolo) e altre volte restano immobili in una severa fissità tesa a catturare l’imponenza marmorea di certi ambienti (come l’acquedotto Claudio o le terme di Caracalla). Quasi sempre in questi sguardi della macchina da presa si avverte come la presenza umana venga schiacciata dalla presenza di un qualcosa di infinitamente più grande di lei; qualcosa che si impone dall’alto e riempie i cieli, i parchi, le strade. Si sedimenta nei palazzi, ne incrosta i marmi e gli scaloni, ne affresca la stanze. E’ la bellezza. E’ appunto questo ineffabile senso di superiorità, l’unico al mondo che non possiamo realmente condividere e possiamo semplicemente subirlo, schiacciati da un dolce e delicato stato di adorazione.
La grande bellezza permea Roma e la avvolge, trasudando da tufo e stucchi tanto ne è piena l’Urbe. Puoi essere archeologo, storico dell’arte o un indistruttibile esteta come Jep Gambardella (interpretato da un sempre bravissimo Servillo), non riuscirai mai a raggiungere il cuore né l’essenza più pura di Roma, non potrai mai dominarla: sarà sempre lei che ti guarderà dall’alto del suo bagaglio di meraviglie, di scorci affascinanti ma soprattutto dall’alto di un solenne smarrimento. La città di Sorrentino è un luogo quasi sospeso nel tempo, in preda al tragicomico esistenziale e il suo messaggio estetico più vero è che non si può realmente spiegare Roma, perché infinite sarebbero le vie da intraprendere. La miglior cosa da fare è contemplarla, provando a sentire la sua pena, la sua saggezza, la sua superiore bellezza

sabato 15 febbraio 2014

mercoledì 12 febbraio 2014

Happy birthday, compagno

Sicuramente oggi non è quello che avevi fatto novant'anni (né quello che ti aspettavi diventasse).
Però comunque auguri per la tua creatura, Antonio. Magari un domani migliora.


domenica 9 febbraio 2014

"Io li odio i razzisti dell'Illinois"



Apprendo oggi dell'esistenza di un sito che si chiama "tutti i crimini degli immigrati", e - nomen omen - riporta puntualmente ogni azione delinquenziale, avvenuta qui in Italia, che abbia la pelle scura. Ma anche mulatta, giallina, o bianca purchè slava. Insomma, un razzismo ben localizzato e preciso.  Non è il razzismo primitivo e grossolano dei nazisti o fascisti. E' un qualcosa del tutto moderno, nuovo, europeo (non sarebbe giustificata la foto che campeggia - chissà perché - nella home page e ritraente Prodi, D'Alema, Veltroni, Ciampi mentre sventolano la bandiera europea).

Sul sito, e su coloro che lo dirigono (nonché su quelli che lo frequentano), non c'è da dire molto. Chiaramente si tratta di opera di disturbati mentali che a seconda dei casi oscillano tra l'idiozia pura (vale a dire quelli che credono veramente in ciò che scrivono, perché ritengono che la madre di tutti i problemi degli italiani siano gli extraitaliani) e la criminalità vera (cioè gli astuti manovratori destroidi che hanno bisogno di sviare attenzione pubblica sui problemi reali del Paese e, assunta in pieno la lezione berlusconiana, fanno presa sul facile populismo da forconi e bastoni tramite l'utilizzo di manganelli informativi informatici). O meglio, disinformativi informatici.

Interessante poi leggere il testo contenuto nelle "info" che riporto qui: 
"Definire questo sito razzista, è come accusare, il medico che fa la diagnosi, della propria malattia: un totale non-senso logico. Del resto, qui non troverete crimini commessi da Giapponesi, Ebrei o Aborigeni: per il semplice motivo che non ne esistono. Troverete invece quelli di Cinesi, Zingari e Africani: per il semplice motivo che ne commettono tanti. Troppi.
Ergo, la “discriminazione” è in base alla realtà oggettiva, non in base all’appartenenza razziale o etnica."

Eh, no, caro amico dal cervello bruciato che scrivi tutto questo, non è proprio come dici tu. Il vero razzismo è esattamente quello che condanna determinate razze e ne lascia stare altre, perché il vero razzismo è sempre quello che raggiunge uno scopo preciso da parte di chi lo propone. Il vero razzismo è quello dei cristiani delle crociate che definivano diabolici i musulmani, ma degli altri dei dell'umanità non hanno avuto da ridire; degli Spagnoli del 1400 che ammazzavano gli Ebrei, però quando occorreva erano ben contenti di intascarne il denaro; degli Americani dell'800 che frustavano i neri nei campi di cotone, però dei cinesi che costruivano ferrovie non è che gliene fregava molto; dei tedeschi di Hitler che saponificavano gli Ebrei perché razza impura, ma intanto l'asse con i Giapponesi - che proprio proprio ariani non sono - l'avevano fatta. 
Quindi tu, caro il mio idiota che hai scritto la stronzata sopra citata, assieme a tutti gli altri idioti che frequentano il tuo sito, non sei altro che l'ulteriore e attualmente ultimo tassello di questa sfilza di pezzi di merda testé elencati, e a nulla valgono tutte le presunte giustificazioni che puoi fornire: sono soltanto delle pezze sporche che metti l'una sull'altra per cercare di nascondere la realtà delle cose. Ma in quella grande centrifuga ciclica (eadem semper sunt omnia diceva qualcuno infinitamente migliore di te) che è la Storia, puoi solo cercare di grattare via la macchia superficiale per far apparire candido il tuo lenzuolo, ma non darti pena: le macchie di merda si vedono sempre benissimo.

sabato 8 febbraio 2014

Marò, cheppalle!

Dopo che per tanti mesi i cretini italioti pseudopatriottici hanno rotto le scatole innalzando slogan mussoliniani contro la pena di morte prevista per i marò, all'annuncio di una possibile pena di 10 anni continuano a indignarsi, prima fra tutti la Bonino che ovviamente non si lascia sfuggire l'occasione per dare un'ulteriore prova di quanto l'Italia sia un qualcosa che la giustizia la bazzica veramente poco (del resto, abbiamo avuto un pregiudicato presidente del Consiglio, figurarsi robetta del genere). Come se non bastasse le varie ed eventuali figure di merda che già abbiamo alle spalle (chi si fosse perso qualcosa per strada, può farsene un'idea leggendo questo articolo: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=10639 ).
Alla luce di tutto ciò, la domanda da porsi è questa: ma se un tizio che uccide un altro non merita dieci anni di carcere, cosa cazzo si deve fare per poter andare in galera e far dire anche a questa paccottiglia di italianicchi idioti "si, lo merita"?