Per fortuna
c’ha pensato un italiano a togliere via lo “sgaro” dal volto di Roma,
lasciatogli da quell’infelice lavoro che porta il titolo di “To Rome with love”
e la regia di un Woody Allen che ci auguriamo di non rivedere mai più così
sottotono. Avevamo lasciato la città eterna sotto una patinatura da cartolina e
la ritroviamo al suo meglio (e al suo peggio) in questo gioiello di Sorrentino.
Nomen-omen, il film si stende sulla
pellicola così come Roma stessa si distende lungo l’Italia. La sua presenza si offre
ai visitatori come una vera grande bellezza, immobile, imponente, statuaria.
Avvolta da un’area quasi sacrale e testimone silenziosa di tutto un fiume di
vite che le scorre sotto gli occhi. Durante i secoli, Roma ha visto tutti i
popoli d’Europa e del mondo, e se tempo fa erano armati di lance e archibugi,
oggi sono armati di macchine fotografiche e videocamere.
Il film di
Sorrentino nasce innanzitutto come un ritratto di Roma, dove Roma indica
l’Italia, e l’Italia è esattamente quel “paese pazzo e bellissimo” che
Sorrentino ha salutato ricevendo il Golden Globe come miglior film straniero.
Pazza e bellissima. Matta e innamorata. Triste e sognante. E’ questa
l’Italia/Roma del regista. Chi vede nel film uno spaccato di ipocrisia, di
denuncia, sbaglia nel profondo perché vede soltanto mezzo film (e forse neanche
quello). Ne “La grande bellezza” più che la condanna emerge lo stridio forte di
due realtà di noi stessi ormai quasi del tutto compenetrate. Non c’è l’accusa
di un lato turpe della mondanità romana come non c’è un vero e proprio elogio
della sua superiorità culturale e artistica: sono due aspetti che si guardano
ferocemente negli occhi, ma che non si dividono mai. Queste due nature le
abbiamo viste già nei ritratti a volte grotteschi dei personaggi felliniani: là
dove il regista de “La dolce vita” ha fermato il suo cinema, da lì riparte il
discorso di Sorrentino e su tutto pesa la direzione che l’Italia ha imboccato
dagli anni ‘60 a oggi, nel bene e nel male. Ma Sorrentino non imita Fellini.
Semplicemente, lo fa respirare regalandogli (e regalandoci) l’aria di Roma, il
frusciare di tende delle grandi finestre di palazzo Altemps, lo svolazzare di
tonache quasi a vessillo di una celestialità diafana e sottile. Chi cerca un
film in qualche modo militante, perderà tutta la raffinata poetica presente a
grandi manciate, resa a furia di eleganti e calibratissime inquadrature, che
talvolta planano dall’alto (come le sequenze iniziali del Gianicolo) e altre
volte restano immobili in una severa fissità tesa a catturare l’imponenza
marmorea di certi ambienti (come l’acquedotto Claudio o le terme di Caracalla).
Quasi sempre in questi sguardi della macchina da presa si avverte come la
presenza umana venga schiacciata dalla presenza di un qualcosa di infinitamente
più grande di lei; qualcosa che si impone dall’alto e riempie i cieli, i
parchi, le strade. Si sedimenta nei palazzi, ne incrosta i marmi e gli scaloni,
ne affresca la stanze. E’ la bellezza. E’ appunto questo ineffabile senso di
superiorità, l’unico al mondo che non possiamo realmente condividere e possiamo
semplicemente subirlo, schiacciati da un dolce e delicato stato di adorazione.
La grande
bellezza permea Roma e la avvolge, trasudando da tufo e stucchi tanto ne è
piena l’Urbe. Puoi essere archeologo, storico dell’arte o un indistruttibile
esteta come Jep Gambardella (interpretato da un sempre bravissimo Servillo),
non riuscirai mai a raggiungere il cuore né l’essenza più pura di Roma, non
potrai mai dominarla: sarà sempre lei che ti guarderà dall’alto del suo
bagaglio di meraviglie, di scorci affascinanti ma soprattutto dall’alto di un
solenne smarrimento. La città di Sorrentino è un luogo quasi sospeso nel tempo,
in preda al tragicomico esistenziale e il suo messaggio estetico più vero è che
non si può realmente spiegare Roma, perché infinite sarebbero le vie da
intraprendere. La miglior cosa da fare è contemplarla, provando a sentire la
sua pena, la sua saggezza, la sua superiore bellezza
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