Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

lunedì 29 giugno 2015

Pompei capitale europea - la mostra al museo archeologico di Napoli




Finalmente al Museo Archeologico Nazionale di Napoli si allestisce una mostra degna del contenitore che la ospita: era ora infatti che uno dei musei archeologici più importanti al mondo (per mole e valore delle sue collezioni) ospitasse un evento ben organizzato e meritevole di essere visto, vale a dire “Pompei e l’Europa. 1748-1943”, iniziato il 26 maggio e che continuerà fino al 2 novembre. Il titolo descrive il ruolo che la città archeologica per eccellenza ha avuto nei confronti del mondo intellettuale e artistico in un determinato lasso di tempo segnato da due date molto significative: la prima testimonia l’inizio degli scavi da parte dei Borboni che hanno portato alla luce il sito archeologico più visitato in Italia dopo il Colosseo (dati Mibact 2015), la seconda il bombardamento che ha distrutto parte del suo patrimonio. 195 anni durante i quali la città campana ha regalato migliaia di reperti artistici e non solo: ha donato storia, architettura, letteratura, religione. Pezzo dopo pezzo, mattone dopo mattone, strada dopo strada, la città si è spalancata agli occhi di chissà quante persone, tappa obbligata per il Grand Tour (così si chiamava il viaggio che gli intellettuali e artisti europei facevano almeno una volta nella vita e che aveva come meta finale l’Italia, in particolare la Campania, in modo da poterne ammirare l’arte e impararne i segreti). La mostra mette in rilievo soprattutto questo, e cioè come l’arte classica si sia travasata nelle parole e nelle pitture di artisti moderni e contemporanei che hanno attinto da Pompei come se fosse una fonte di cultura in continuo scorrere e rinnovamento. La città vesuviana era sepolta ma non è mai morta, ha continuato – una volta venuta alla luce – a muoversi e brulicare di vita, a emozionare gli animi e riempire gli occhi di passione. Ed ecco che Goethe ebbe a dire che mai nella Storia una sciagura così grande avrebbe dato tanta gioia all’umanità, mentre Leopardi guardava, fantasticando, le case romane emergere dall’oblio del passato. E se poeti e scrittori hanno fatto la loro parte, i pittori non sono stati da meno: la mostra gode infatti di un dialogo aperto con i quadri degli artisti che ispirandosi a Pompei (soprattutto dopo averla vista) hanno eternato ulteriormente la sua fortuna culturale. La Sala della Meridiana (l’ampio salone che ospita la mostra) dunque oltre a riempirsi di reperti archeologi si abbellisce di ulteriori tele in aggiunta a quelle che normalmente già ospita, con risultati decisamente affascinanti, perché non capita tutti i giorni vedere un’opera di De Chirico circondata da antichi elmi e schinieri dei gladiatori, oppure le “Bagnanti” di Picasso fare da pendant ai letti (originali) sulle quali le professioniste del lupanare svolgevano il loro mestiere. E ancora George Braques, Paul Klee, Giacinto Gigante e altri ancora che trasformano in bellezza pittorica la bellezza degli scavi. Ma il discorso non si limita soltanto all’arte, perché tra i nomi illustri che sono stati ispirati da Pompei c’è anche quello di Le Corbusier, l’architetto che forse più di tutti ha segnato lo zeitgeist (ovvero lo spirito) del Novecento. Vedere come l’eccezionale architettura classica riesca a nutrire quella contemporanea non fa altro che aggiungere valore al ruolo e l’importanza di un sito straordinario quale è Pompei, e la mostra mette bene in evidenza tutto ciò estendendo il paradigma ad altri campi dello scibile umano. L’unica vera pecca dell’evento è la relativa limitatezza, volendo intendere che la ricchezza di materiali che il Museo di Napoli possiede potrebbe ampliare ancora di più la superfice espositiva (non riesco a fare a meno di pensare – e soffrirne – alle centinaia e centinaia di statue e reperti che giacciono nel chiuso dei magazzini dato che il materiale esposto all’interno di tutto il museo corrisponde a circa un terzo di quanto realmente possiede). Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.
Visita consigliatissima e quasi obbligatoria, quindi, soprattutto per noi campani che in maggior numero ci trasciniamo la colpa gravissima di non aver mai visto né Pompei né il Museo stesso, la qual cosa diventa ancora più imperdonabile se si pensa che nel 1787 – un’epoca in cui non esistevano aerei, treni, macchine o biciclette – dalla lontana Weimer (Germania), Goethe intraprese un viaggio di circa 1500 km per arrivare a vedere i resti più vivi e spettacolari che l’antichità ci abbia mai lasciato. E forse questo constatare che Pompei (e quindi l’arte, la cultura, il turismo) fu all’epoca faro ed epicentro da cui si è irradiata la fortuna dell’Italia dovrebbe farci pensare che forse ancora oggi può e deve continuare a essere una formula politica, economica, sociale e culturale dalla quale non possiamo e non dobbiamo mai prescindere.

lunedì 22 giugno 2015

Intervista a Roberto Recchioni

D. D. “Dylan Dog” ha subito un cambiamento, un’evoluzione: in qualche modo è andato avanti adeguandosi ai tempi, adottando la strategia di case editrici come la Marvel, che tende ad aggiornare i supereroi proprio per non distaccare troppo la realtà del fumetto da quella dell’attualità. Questo processo ti ha fatto temere di snaturare il personaggio oppure lo hai vissuto come un fenomeno del tutto normale?

R. R. No, io non credo che abbiamo ripreso gli stilemi Marvel. La Marvel azzera i personaggi, li fa ricominciare perché di solito il personaggio ha un calo di vendite. Dylan Dog è sempre stato un personaggio che sin dalla sua origine è stato nel mondo presente: andava al cinema e vedeva i film che c’erano in quel momento preciso. Succedeva nell’86 e poi è andato avanti fino al 2000; poi a poco a poco si è un po’ adagiato in un “non mondo” e quello che abbiamo fatto è stato riportarlo all’idea originale, cioè un personaggio che vive nell’epoca presente ma è un’operazione radicalmente diversa da quella Marvel, non vuole essere in nessuna misura uno stravolgimento, anzi, è un ritorno alla formula originale.

D. D. Buona parte del successo di Dylan Dog è stato anche dovuto al fatto che gli anni ’80 – il periodo in cui è nata la testata – sono stati un po’ gli anni in cui l’orrore e la paura hanno avuto tanta linfa e tanto seguito. Oggi i registri narrativi della paura sono inevitabilmente diversi e forse proprio i fumetti sono il media in cui attecchiscono di meno, soppiantati da altri media più immediati e “reali” come il film o il videogioco. Secondo te oggi come oggi il fumetto è ancora capace di trasmettere il senso della paura?

R. R. Ma io non penso che Dylan sia legato soltanto all’orrore e alla paura perché se così fosse sarebbe sparito insieme a tutte le testate analoghe che nacquero negli anni ’80 sull’onda della moda e dello splatter. Invece Dylan è rimasto, segno che il suo successo dipendeva da qualcos’altro, dipendeva dalla scrittura di Tiziano (Sclavi, creatore di Dylan Dog, n.d.a.), dipendeva dalla bontà del personaggio, dal fatto che all’interno del fumetto c’erano mille registri diversi. In quanto all’orrore, è declinabile sempre, quest’epoca è perfetta per la declinazione dell’orrore. Il fumetto è un linguaggio come un altro, la bontà del fumetto nel raccontare l’orrore e la paura dipende solo dalla bontà dei suoi sceneggiatori

D. D. In ultimo, passiamo a “Orfani” il lancio editoriale di cui sei autore. Abbiamo visto che c’è una seconda stagione (il fumetto è diviso in stagioni, come un serial televisivo n.d.a.) in parte ambientata qui a Napoli: la città è stata scelta per un motivo particolare o semplicemente per il fascino che può avere in sé?

R. R. Io amo molto Napoli. Ho esordito con le pagine dell’Eura (casa editrice, n.d.a.) venti anni fa con una serie che si chiamava “Napoli ground zero” e che era una serie di fantascienza a cui “Ringo” (la seconda stagione di “Orfani”) si ispira. La storia doveva partire dal Sud verso il Nord, quindi Napoli mi è sembrata la città perfetta. E poi Napoli è già quasi una città del futuro, ma di quel futuro alla “blade runner”

D. D. Un po’ un limbo del futuro…

R. R. Sì, esatto, un limbo del futuro dove convivono mille tendenze, mille culture, mille società che si mescolano con l’alto e il bassissimo. E’ già una rappresentazione di un certo tipo di futuro.




(Roberto Recchioni è nato a Roma il 13 gennaio 1974. Sceneggiatore e disegnatore di fumetti, ha lavorato con Rizzoli, Magic Press, Panini, Disney e Bonelli, per la quale attualmente sta curando la gestione di “Dylan Dog” e “Orfani”, serie da lui ideata assieme al disegnatore Emiliano Mammucari.)

giovedì 4 giugno 2015

Napoli, stazione metropolitana di Piazza Municipio



La torre dell'Incoronata, uno dei tre torrioni presenti nella struttura difensiva del Castello Aragonese emersa durante gli scavi della metropolitana









Gli scavi per un'altra sezione della stazione metropolitana che ingloberà la cittadella aragonese





Il progetto della sistemazione finale di Piazza Municipio

martedì 2 giugno 2015

La cosa pubblica

Cara Repubblica,
io non ti ho vista nascere, al contrario, sono io che sono nato nel tuo grembo. Però per fortuna appartengo a una di quelle generazioni che ha fatto delle scuole elementari un po’ mazziniane, per cui verso la fine di maggio le maestre ci parlavano di te, e aprendo le pagine dei sussidiari (non avevamo ancora Instagram né telefonini che rispondevano alle nostre domande) ci mostravano tante foto in bianco e nero che per lo più ritraevano gruppi di gente felice all’indomani di un voto che avrebbe cambiato la storia del Paese in cui viviamo. All’epoca non capivo bene perché quelle persone erano così felici, fondamentalmente perché non capivo cosa fosse cambiato con quel voto (io sono nato che tu eri già quarantenne, come dicevo), oggi invece dopo aver letto un po’ di libri credo di aver intuito la gioia di tutta quella gente in foto. Dico “intuito” perché il sapore della libertà lo si gusta fino in fondo solo quando viene conquistata (e dunque prima non c’era), mentre invece nel mio caso c’è sempre il solito dettaglio per il quale sono già nato con il piatto pronto davanti. Però fortunatamente ho abbastanza palato per saggiarne il retrogusto e saperlo apprezzare.
Oggi mi chiedo quante altre persone riescano a percepire la stessa sensazione che provo io. Dico questo perché so che nel corso del tempo ti hanno un po’ maltrattato: ad esempio, so che qualche tempo fa ti abbiamo simbolicamente azzerato e siamo andati avanti, per cui esiste una Prima e una Seconda Repubblica (anche se alla fine sempre tu sei), e qualcuno ha già parlato di una Terza (e comunque sempre tu sei).
Ecco, il punto è proprio questo: io credo che le persone non abbiano ancora capito bene che la numerazione ordinaria è una cosa che si addice a re e papi, perché quelli sono tanti e soprattutto sono uomini, e in quanto tali prima o poi vanno via. La Repubblica invece no. La Repubblica è una e soprattutto unica. E’ continua, vasta, sempre presente e sempre uguale – dove possibile – a se stessa e ai princìpi che la guidano.


Insomma, cara Repubblica, alla fine la storia è sempre quella: penso che noi siamo bravi a odiarti, disprezzarti o trovarti eventuali sostituti solo perché resta la soluzione più facile. Come nella vita, invece, amare e apprezzare per davvero resta una strada non più difficile ma sicuramente più impegnativa. Per cui credo che chi calpesta le tue leggi, chi ti sostituirebbe con un Savoia o un Borbone, chi ti accusa di essere troppo o troppo poco liberale, troppo democratica o poco democratica, troppo giustizialista o poco severa, sia semplicemente una persona che non ha ancora o non ha mai imparato ad amarti davvero, di quell’amore che non è fatto solo ed esclusivamente di tricolore e nazionalismi urlati con rabbia e/o frustrazione, ma quell’amore fatto di passione, sacrificio, impegno ed eventualmente anche rinuncia. E come una coppia che dopo aver litigato è pronta ad ammettere i proprio errori, anche noi dovremmo imparare ad ammettere i nostri Moro, le nostre Br, gli Italicus, le piazze, le stazioni e le bombe, le P2 che diventano P3 (non a caso, come detto prima, la numerazione è per i monarchi), le cupole e il suo tritolo, le impunità, l’ineleggibilità e il conflitto di interessi, le agende rosse, le morti bianche e le camicie verdi, gli scontri agli stadi, gli stipendi dei parlamentari, le intercettazioni, i bavagli e quel migliaio di coltellate che abbiamo rifilato alla tua Costituzione.
Chissà se dopo queste ammissioni di colpa un giorno saremmo in grado di amarti davvero.
Tuttavia nell’attesa di imparare a farlo, un buon inizio potrebbe essere quello di farti gli auguri di buon compleanno e ringraziare, ancora una volta, tutti quei cittadini che il 2 e 3 giugno del 1946 ti hanno fatto venire al mondo.


Un abbraccio