Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

martedì 2 giugno 2015

La cosa pubblica

Cara Repubblica,
io non ti ho vista nascere, al contrario, sono io che sono nato nel tuo grembo. Però per fortuna appartengo a una di quelle generazioni che ha fatto delle scuole elementari un po’ mazziniane, per cui verso la fine di maggio le maestre ci parlavano di te, e aprendo le pagine dei sussidiari (non avevamo ancora Instagram né telefonini che rispondevano alle nostre domande) ci mostravano tante foto in bianco e nero che per lo più ritraevano gruppi di gente felice all’indomani di un voto che avrebbe cambiato la storia del Paese in cui viviamo. All’epoca non capivo bene perché quelle persone erano così felici, fondamentalmente perché non capivo cosa fosse cambiato con quel voto (io sono nato che tu eri già quarantenne, come dicevo), oggi invece dopo aver letto un po’ di libri credo di aver intuito la gioia di tutta quella gente in foto. Dico “intuito” perché il sapore della libertà lo si gusta fino in fondo solo quando viene conquistata (e dunque prima non c’era), mentre invece nel mio caso c’è sempre il solito dettaglio per il quale sono già nato con il piatto pronto davanti. Però fortunatamente ho abbastanza palato per saggiarne il retrogusto e saperlo apprezzare.
Oggi mi chiedo quante altre persone riescano a percepire la stessa sensazione che provo io. Dico questo perché so che nel corso del tempo ti hanno un po’ maltrattato: ad esempio, so che qualche tempo fa ti abbiamo simbolicamente azzerato e siamo andati avanti, per cui esiste una Prima e una Seconda Repubblica (anche se alla fine sempre tu sei), e qualcuno ha già parlato di una Terza (e comunque sempre tu sei).
Ecco, il punto è proprio questo: io credo che le persone non abbiano ancora capito bene che la numerazione ordinaria è una cosa che si addice a re e papi, perché quelli sono tanti e soprattutto sono uomini, e in quanto tali prima o poi vanno via. La Repubblica invece no. La Repubblica è una e soprattutto unica. E’ continua, vasta, sempre presente e sempre uguale – dove possibile – a se stessa e ai princìpi che la guidano.


Insomma, cara Repubblica, alla fine la storia è sempre quella: penso che noi siamo bravi a odiarti, disprezzarti o trovarti eventuali sostituti solo perché resta la soluzione più facile. Come nella vita, invece, amare e apprezzare per davvero resta una strada non più difficile ma sicuramente più impegnativa. Per cui credo che chi calpesta le tue leggi, chi ti sostituirebbe con un Savoia o un Borbone, chi ti accusa di essere troppo o troppo poco liberale, troppo democratica o poco democratica, troppo giustizialista o poco severa, sia semplicemente una persona che non ha ancora o non ha mai imparato ad amarti davvero, di quell’amore che non è fatto solo ed esclusivamente di tricolore e nazionalismi urlati con rabbia e/o frustrazione, ma quell’amore fatto di passione, sacrificio, impegno ed eventualmente anche rinuncia. E come una coppia che dopo aver litigato è pronta ad ammettere i proprio errori, anche noi dovremmo imparare ad ammettere i nostri Moro, le nostre Br, gli Italicus, le piazze, le stazioni e le bombe, le P2 che diventano P3 (non a caso, come detto prima, la numerazione è per i monarchi), le cupole e il suo tritolo, le impunità, l’ineleggibilità e il conflitto di interessi, le agende rosse, le morti bianche e le camicie verdi, gli scontri agli stadi, gli stipendi dei parlamentari, le intercettazioni, i bavagli e quel migliaio di coltellate che abbiamo rifilato alla tua Costituzione.
Chissà se dopo queste ammissioni di colpa un giorno saremmo in grado di amarti davvero.
Tuttavia nell’attesa di imparare a farlo, un buon inizio potrebbe essere quello di farti gli auguri di buon compleanno e ringraziare, ancora una volta, tutti quei cittadini che il 2 e 3 giugno del 1946 ti hanno fatto venire al mondo.


Un abbraccio

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