Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

giovedì 27 giugno 2013

"L'uomo d'acciaio" (Man of steel) - recensione del film



E’ sicuramente uno dei titoli più attesi del 2013. “Man of steel” lo aspettavano in molti, principalmente gli amanti dei film sui supereroi, ma anche gli amanti del cinema in generale perché la pellicola ha implicitamente in sé un po’ di buoni motivi per essere vista: c’è il ritorno sul grande schermo del più famoso tra i supereroi, ma allo stesso tempo anche quello che più difficilmente può essere reso in maniera fedele e adatta al gusto del grande pubblico (si pensi, ad esempio, al piccolo grande problema della resa cinematografica del suo costume, che per quanto possa avere una bella immagine grafica nei fumetti, nel cinema lo trasforma molto nel tipico “supereroe in calzamaglia” che fa tanto anni ’80, togliendo appeal al personaggio, e infatti non a caso in quest’ultima trasposizione ne indossa uno in versione 2.0); c’è poi la duplice presenza di Zack Snyder alla regia (reduce dal successo di “300” ma anche dai flop di “Watchmen” e “Suckerpunch”) e di Christopher Nolan (regista che ha regalato pellicole straordinarie quali “The prestige”, “Inception” e la trilogia del “Cavaliere oscuro”) nel doppio ruolo di co-sceneggiatore e produttore. E c’è infine la voglia di rilancio da parte della DC (la casa produttrice dei fumetti di “Batman” e “Superman”) nei confronti della Marvel che dopo il successo degli “Avengers”, il reboot di “Spiderman” e gli incassi del terzo “Iron Man” sembra inarrestabile. L’impresa, insomma, era difficile ma promettente e soprattutto aveva gli occhi dei media e della critica puntati addosso già da diverso tempo. La segretezza e la divulgazione centellinata di informazioni e foto di scena durante i mesi di lavorazione hanno poi fatto il resto: l’attenzione è stata catturata e adesso “Man of steel” è sul grande schermo.

Personalmente, non ho mai creduto nelle recensioni, perché una recensione è inevitabilmente un’opinione personale e come tale può essere inficiata da una serie di variabili che vanno dalla simpatia o meno che si può provare verso il regista o un attore, fino addirittura a se nella sala in cui hanno proiettato il film c’era un pessimo audio o il tizio seduto affianco non ha fatto altro che parlare. Per cui, preferisco liquidare subito il sunto che la maggior parte dei potenziali spettatori vuole sapere, e se cioè il film è bello o meno; io preferisco dire che “mi è piaciuto” e se proprio ci tenete a saperlo, ve ne consiglio la visione.

Ma vediamo di analizzare un po’ nel dettaglio la pellicola. Il punto è questo: il film risente molto della doppia presenza Snyder-Nolan, per cui di conseguenza abbiamo una storia quasi perfettamente divisa tra introspezione psicologica, dimensione umana e fallace (zampino di Nolan, basti pensare all’amletico e problematico Batman de “il Cavaliere oscuro”) e scene di azione quasi estreme, dove ogni pugno sembra essere l’inizio di un apocalisse (virtuosismi tecnici targati Snyder, che la lezione degli scontri spettacolari di “300” l’ha imparata e non perde occasione per riproporla). La dualità di questa condizione ha fatto storcere il naso a più critici, forse anche (parzialmente) a ragione, ma bisogna pur tenere presente che ogni storia necessita del suo plot narrante prima di giungere alle scene madri e soprattutto – cosa che non tutti colgono – i fumetti in questione dai quali vengono tratte idee e vicende sono strutturati esattamente in questa maniera. Provarlo è semplicissimo, basta sfogliarne uno per rendersi conto di quanto siano frequenti le tipiche vignette cariche di “balloon” fitti di parole e verbosi fin nelle ossa. L’unico dettaglio che a me è sembrato piuttosto ridondante è una buffa (voluta o involontaria) piega del personaggio che, nella ricerca del perché della sua sopravvivenza e del significato  della sua nuova vita sulla Terra, tende a identificarsi in una maniera piuttosto bizzarra a un messia, se non addirittura a un novello Cristo, che in una scena a dir poco comica campeggia alla sue spalle sulle vetrate di una chiesa (nella quale il superuomo va a cercare conforto), dipinto con indosso un vistoso mantello rubicondo. Ogni riferimento a fatti o supereroi è del tutto casuale.

A parte questo dettaglio, la linea riflessiva del film scorre in una maniera abbastanza omogenea senza particolari momenti morti e soprattutto senza vuoti nazionalismi né retorica d’altri tempi. C’è una certa dose di morale sfarinata qua e là ma, accidenti, è pur sempre Superman, in fondo, non “il grande Lebowski”.

Un’altra considerazione va fatta sulle roboanti scene di combattimenti, vale a dire quelle scene in cui Snyder si sarà sentito più a suo agio. Il regista ha senza dubbio la tendenza alla spettacolarità e fa volentieri largo uso di riprese in slow motion alternate a brusche accelerazioni, tecnica che consente di dare un’idea concitata dell’azione, nonché della potenza dei colpi sferrati. Io personalmente sono uno di quelli che considera il leggero abuso che Snyder tende a fare di questa tecnica un modo alquanto cafone di dirigere un film, ma in questo caso specifico bisogna accettare che nel momento in cui si postula l’esistenza di un uomo superforte e superveloce le leggi della fisica prendono un po’ la strada che vogliono, separandosi da quelle strettamente realistiche. Superman è un concentrato di potenza. Seguendo i dettami della DC, dopo Batman è lui il supereroe più possente del mondo (questo perché nei fumetti Superman stesso consegna a Batman un frammento di kryptonite che l’uomo pipistrello ha l’obbligo di portare sempre con sé nella cintura casomai un giorno l’uomo d’acciaio dovesse impazzire e perdere il controllo), ergo il suo modo di combattere - soprattutto quando affronta nemici suoi pari -  non può non avere effetti devastanti. Per chiarirci un po’ le idee, diamo un’occhiata in computer graphic a come è effettivamente un suo combattimento: https://www.youtube.com/watch?v=H7Nf-m6WGl4 (per evitare perdite di tempo, andate direttamente a 3:20 e guardate la scena). Come potete vedere i suoi movimenti sono rapidissimi e potenti: con questi presupposti non è difficile immaginare quali sono le conseguenze.

Il lavoro di Snyder è stato sostanzialmente quello di provare a rendere in carne e ossa ciò che con la grafica computerizzata accettiamo più facilmente, e in questo non si può dire che abbia fallito.

Un’ultima osservazione riguarda infine quello che è a mio avviso il punto più debole del film, vale a dire la resa attorica del personaggio. Senza nulla togliere a Henry Cavill, l’interprete di Superman, l’uomo d’acciaio tende a essere tale anche nelle espressioni che risultano un po’ legnose, soprattutto perché il personaggio non è facile da rendere, dato che è sempre in bilico tra una bonaria freddezza e una formale disponibilità. Purtroppo nel voler rendere il distacco, l’isolamento dal resto del mondo per via della sua natura, una certa difficoltà nel prendere una decisione e accettare il suo ruolo, ma anche un’aurea di benevola superiorità e sicurezza di sé, il kryptoniano ha finito per smarrire parte della sua personalità e carisma, intrappolato da una recitazione che tende a essere pulita ma allo stesso tempo fredda. Niente da biasimare, il compito non era facile e delineare la psicologia di un personaggio del genere può facilmente sfociare nel ridicolo cosa che fortunatamente nel film non succede.

Interessante e del tutto funzionante invece il resto del cast; particolarmente accattivante un bravo Kevin Costner calato a perfezione nei panni di Jonathan Kent, padre terreste di Superman, nonché rappresentante di quell’America (pittoresca) rustica, semplice e dai principi morali saldi e puliti.

Nel complesso, il film sembra essere un esordio di tutto rispetto, e sicuramente se verranno ben limate una serie di piccole sbavature ne potrebbe uscire una interessante trilogia (ormai cinematograficamente parlando si ragiona in questi termini) magari non eccelsa ma di sicuro non banale.



P.S. Casomai qualcuno, vedendo il video che ho inserito nell’articolo, avesse dubbi o domande su cosa abbia appena visto e voglia semplicemente capirci qualcosa, non ha che da chiedere.  

mercoledì 26 giugno 2013

La mi porti un bacione agli Uffizi


Bè, a quanto pare tra la "casa degli amorini dorati" di Pompei e queste sale degli Uffizi, non è che ci sia molto da lamentarsi.
O meglio c'è, perché seppure notizie del genere ci rendono felici, dobbiamo ricordare che stiamo pur sempre in Italia, una nazione che per quanto riguarda la manutenzione dei beni culturali cade a pezzi e si deve quindi stare attenti a non farsi sventolare episodi del genere sotto gli occhi come se fossero prosciutto da mettere sugli occhi. 
Possiamo solo augurarci, porgendo doverosi complimenti a quanti hanno lavorato per l'apertura di queste sale, che una tale situazione sia da stimolo per un continuo, incessante miglioramento. Del quale abbiamo disperatamente bisogno.
Ad maiora. 

martedì 25 giugno 2013

Maledetta amata Pompei


A quanto pare, a Pompei riapre la "casa degli amorini dorati" dopo un lungo periodo di restauro. Di questo me ne compiaccio e faccio i miei complimenti innanzitutto ai restauratori e poi alla soprintendenza che ha avuto la premura di tutelare e far rinascere questa domus.

Io però a Pompei ci sono stato il 15 di questo mese e posso testimoniare che diverse case, non molto tempo fa aperte, erano chiuse al pubblico. Non so se solo per quella giornata o siano "in restauro" anche quelle.
Mi limito a riportare un fatto.

sabato 15 giugno 2013

Un mare di inchiostro









Il grande viaggio della letteratura occidentale nacque quasi 3000 anni fa quando fu narrata la prima avventura sul mare che la storia abbia mai conosciuto, quella di Odisseo che dopo la guerra di Troia tentava di ritornare alla sua casa in Itaca, e prima di riuscire a dormire nel proprio letto dovette affrontare uomini, donne, mostri e dei.

E’ emblematico notare come la letteratura del nostro emisfero sin da subito sappia di acqua salata, di nobile legno ben lavorato che solca creste d’onde di un mare che a volte è amico fraterno, simbolo di nuovi orizzonti da scoprire, a volte è un avversario torbido, severo come un possente dio antico e barbuto. Non è un caso che  i Greci avevano un nome per identificare il primo (“okèanos”, il mare da attraversare ) e un altro per indicare il secondo (“pòntos”, il mare oscuro e ricco di pericoli).

Dal momento della sua nascita in poi, l’arte di raccontare non ha fatto che trasmigrare da una sponda all’altra di quel grande specchio d’acqua che è il mare Mediterraneo e così dalla Grecia il testimone letterario fu passato a Roma; e quando infine anche l’impero di quest’ultima si sfaldò, ecco che il bisogno di narrare trovò ospitalità, un po’ alla volta, nelle varie zone d’Europa.

Il mare dunque è stato non solo traghettatore di merci e uomini che partivano alla scoperta di nuove terre, ma anche di idee, di pensieri, di arte; tante pagine di letteratura non sono solo bagnate di inchiostro ma anche intrise di salsedine e accarezzate dalla brezza marina. Vediamo qualche titolo insieme.

Sicuramente uno dei grandi capolavori di questa tematica è “il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway, che più che un racconto sembra quasi essere un saggio sul destino dell’uomo perso nell’infinita (e solitaria) vastità della sua esistenza, una sfida primordiale tra l’uomo e se stesso, piuttosto che tra l’uomo e la natura. Doveroso poi menzionare altri grandi classici come “Moby Dick” di Herman Melville, un libro dai contenuti quasi biblici per l’elevata caratura morale che lo contraddistingue e dicasi lo stesso per un’altra opera del medesimo autore come “Billy Budd il marinaio”. Ma accanto a Melville va poi citato Joseph Conrad che naviga sulle rotte delle parole contenute in alcuni capolavori quali “Lord Jim”, “Tifone” e “La linea d’ombra”.

Ma fin qui abbiamo citato i passi obbligati di chi vuole scoprire la letteratura di mare. Per andare un po’ più oltre conviene addentrarsi nelle acque alte del grande Patrick O’ Brian, l’autore della saga del capitano Jack Aubrey, che conta ben 21 libri (anche se l’ultimo è incompleto) di cui uno nel 2003 ha avuto una fortunata trasposizione cinematografica con il film “Master and commander” con Russel Crowe nei panni del protagonista. Questa saga è forse la più affascinante che un appassionato di mare possa mai leggere, arricchita da una attenta ricostruzione storica e un’ottima conoscenza della materia: il lettore che si immerge nelle sue pagine si ritroverà a vivere in pieno l’atmosfera della marina inglese del XIX secolo.

O’ Brian deve a sua volta molto al grande capostipite delle avventure della marina inglese, il capitano Horatio Hornblower, protagonista della saga scritta da Cecil Scott Forester e che consta di 11 libri. Di tale saga esiste una miniserie televisiva britannica di 8 puntate.

In ultimo, e scusandoci con scrittori come Stevenson non citati per motivi di spazio, va menzionato il contemporaneo Björn Larsson, grande appassionato di barca a vela (dove tra l’altro ha scritto molti dei suoi romanzi) che si è fatto conoscere al grande pubblico con opere quali “il cerchio celtico”, “la vera storia del pirata Long John Silver” e “la saggezza del mare”. Il suo stile è molto interessante e forse leggermente più coinvolgente per il lettore di oggi che potrebbe avere un po’ di difficoltà a prendere confidenza con i termini marinareschi dell’800. Larsson – nonostante inserisca molti elementi storici – tende a strizzare l’occhio alla modernità, ma in effetti il soggetto dei suoi libri resta il mare puro, quella sconfinata distesa di acqua che si stende da occidente a oriente e che nella sua immobilità sembra non avere uno spazio o un tempo nel quale essere collocato.