Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

venerdì 28 marzo 2014

Nostalgia

Non per dire niente, ma questa è la "domus" che ho rilevato (il rilievo è un'operazione archeologica di disegno tecnico atto a stabilire le misure precise al millimetro di un ambiente) anni fa, quando era ancora chiusa al pubblico. 
Sorriso.

martedì 25 marzo 2014

Arrh

Per un non precisato motivo, oggi avevo voglia di disegnare pirati (voglia che mi è passata alla grande dopo un po' e infatti il lavoro è rimasto a metà).


martedì 11 marzo 2014

"300 - rise of an empire" di Noam Murro - recensione del film





Premesso che niente potrà eguagliare in bellezza "Trecind", la versione di "300" in dialetto altamurano, oppure "299 + 1" di Leo Ortolani, chi bazzica news e rumors sulle uscite cinematografiche aveva intuito che “300 – rise of an empire” era un’arma a doppio taglio che presentava, oltre a notevoli difficoltà, anche il rischio di far scadere tutto in barzelletta. Soprattutto perché porta la firma di Zack Snyder (alla sceneggiatura) e i critici più attenti hanno imparato che laddove c’è Zack c’è spesso puzza di fregatura. E’ lo stesso identico terrore che mi assale quando penso che a lui è stata commissionata la regia del film del secolo, quello dell’incontro Batman-Superman.
Il punto è che Snyder ha un notevole difetto: fatto successo con un lavoro, tutti gli altri tendono a essere la brutta copia dello stesso (io la chiamo la “sindrome Seth MacFarlane”). Ragion per cui, ecco che guardando “300 – rise of an empire” sembra di trovarsi davanti a un film che ha una serie di sequenze incollate tra di loro, senza che seguano necessariamente un filo logico. Per cui, se volete vedere massacri e sangue generosamente elargito, eccovi accontentati (nota personale per il curatore dei visual effects: il sangue non è melassa, per cui magari se agli schizzi date maggiore fluidità, la biologia ve ne sarà grata. Se vi servono informazioni in merito potete contattare la Showtime e farvi prestare qualche puntata di “Dexter”); se volete vedere spettacolari duelli, tracotanti di una virile e mastodontica fierezza, eccovi accontentati; se volete vedere qualche simpatico giochino grafico generosamente regalatoci dal 3D, eccovi accontentati. Però non azzardatevi a chiedere altro.
Se lo spettatore più pedante (vedi me) cerca un angolino in cui rivivere quel gradevole (anche se pacchiano) pathos ed epos versione blockbuster che aveva scorto in “300”, rischia di rimanere deluso. Non troverete il carisma o l’intensità di certe scene viste nel film precedente, i personaggi di questo film sono marionette senza personalità, assolutamente monodimensionali.
Perché? Ma è ovvio, perché il primo film aveva una sceneggiatura che era pari pari quella signora graphic novel che porta la firma di Frank Miller. Il Frank Miller buono, quello che sapeva disegnare e sapeva sceneggiare prima che si bevesse il cervello (anche se con il recente “Holy terror” si è rifatto abbastanza).
Volete una prova di quanto la vecchia pellicola debba al fumetto? Bene, vi siete mai chiesti da dove venga la tecnica della ripresa rallentata nel momento decisivo di vibrare il colpo che tanto abbonda in “300”? Molto semplice, viene dal fatto che essendo il fumetto breve – ed essendo il film il ricalco uguale vignetta per vignetta dello stesso – la scena aveva bisogno di rallentare a volte, altrimenti sarebbe durata troppo poco per coprire tutto un lungometraggio. Praticamente serviva per allungare il brodo.
Ebbene, in questo caso brodo da allungare non ce n’è, perché non c’è quel grandioso fumetto che era alla base e dava il senso a tutti (si, a quanto pare il film è comunque tratto da un fumetto di Miller, “Xerxes”, che però – guarda caso – ancora non è stato pubblicato, chissà come mai). Ciò che dava senso a quella storia, tingendola di unicità, era il pesante e angoscioso ragionamento sulla guerra, sulla spietatezza. Più che raccontare una storia in sé, raccontava una mentalità (per quanto romanzata), quella spartana, che andava a scontrarsi con un’altra – persiana – del tutto differente: entrambe le culture si misuravano lungo la stretta striscia delle Termopili. Miller (quello che ancora ragionava), disegnando “300” andava a inchiostrare tutto un ragionamento, declinando in grandiosi chiaroscuri (gli stessi che caratterizzeranno “Sin city”) la violenza della sua riflessione.
In questo film invece non c’è niente di tutto ciò. Manca la storia, manca l’immaginario, manca l’equivoco del mito. E’ semplicemente un “numero 2, la vendetta”, in puro stile anni ’80. I personaggi sono un po’ il calco di quelli precedenti, il minestrone viene arricchito con qualche new entry (nella fattispecie l’ennesima ragazza cattiva e tosta, a metà tra la femme fatale e una mistress sadomaso) e poi gli ovvi e necessari rimandi al primo, tanto per rinverdire lo stufato con un tocco di ingredienti tradizionali.

Conclusioni: io sono un fan di “300” e questo non mi ha convinto per niente. Anzi, praticamente mi ha alzato lo sdegno contro Snyder e Miller. Il film non è del tutto un furto (ormai io li classifico così), su sei euro ne vale la metà ma non è che esci dalla sala del tutto soddisfatto. Io al cinema cerco storie e non solo riprese i cui colori hanno il contrasto alto.

 

lunedì 10 marzo 2014

Oggi il papa ha fatto la cacca due volte. La gente vuole sapere.

Tutto il rispetto possibile a Papa Francesco ma un SETTIMANALE dedicato a lui e a quello che ha fatto nel corso della settimana precedente sembra davvero il peggior uso possibile di carta. Va bene, c'è il doppio poster (il doppio poster del papa, notate bene), ma non basta lo stesso a giustificare un'intera rivista.
Ecco perché l'Italia è il paese dove si legge meno in Europa e perfino le grandi case editrici faticano a tenere la bottega aperta.
Vergogna.
Ma tanta, eh.


sabato 8 marzo 2014

Mimose e papiri



Hypatia d’Alessandria (370 – 415) fu matematica, astronoma e filosofa. In tempi dove ancora esisteva una rigidissima separazione dei ruoli e la relegazione delle donne in un settore domestico, lei insegnava nella scuola neoplatonica di Alessandria d’Egitto ed era ammirata dai più importanti filosofi del tempo. A lei si deve il perfezionamento e completamento del più importante strumento astronomico dell’antichità, l’astrolabio.
Nella temperie culturale di quegli anni, Alessandria si trasformava dolorosamente da pagana a cristiana, un processo condotto soprattutto a forza di violenti scontri e uccisioni di massa. Hypatia, poiché filosofa e pagana, fu spesso oggetto di accuse da parte dei cristiani guidati dal vescovo Cirillo; per dare una dimostrazione esemplare, i cristiani più fanatici le tesero un agguato e, rapitala, la trascinarono fino alla chiesa di Cesario, la denudarono e la uccisero colpendola con pietre e cocci. Ne smembrarono il cadavere e bruciarono i pezzi affinché di lei non rimanesse traccia.
Era l’8 marzo del 415 d. C.

Auguri non a tutte le donne, ma solo a quelle che, in un modo o nell’altro, sono degne discendenti morali di Hypatia. 


venerdì 7 marzo 2014

L'illustre estinto

Oggi sono stato a un funerale. Era quello del Barone.
Il Barone, al secolo Antonio Varvalla, sono in molti a conoscerlo e in tanti a non sapere chi sia. Se siete di Napoli, o la frequentate con una certa assiduità, o ci avete vissuto, allora di sicuro lo conoscete. Ma anche se siete di Roma o Torino, potreste aver sentito parlare di lui. La fama vola leggera, e quella del Barone aveva le ali del mito.
Già perché il Barone era un clochard, come direbbero i giornali, oppure un barbone come si direbbe più facilmente e senza l’imbarazzo formale della parola scritta; era però abbastanza unico nel suo genere. Abbandonato a se stesso, vagava per certe piazze di Napoli, in genere quelle vicine alla zona universitaria. Gradiva la scalcagnata presenza dei giovani, il barone. Chissà come gli apparivano quelle cianfrusaglie che vanno e vengono dalle aule universitarie, e che la sera si riuniscono sui gradini o all’entrata di un bar.
Di sicuro lo divertivano, e lui divertiva molto loro. E se pure il divertimento di chi lo vedeva era molto simile (o lo era proprio) a una presa in giro, a me piace pensare che anche lui – lucido o meno – prendeva in giro tutti.
E forse questo un po’ è vero. Il Barone era un emarginato, ma lo era anche intellettualmente. Senza regole, senza padrone, senza morale; più di una volta mi sono ritrovato a considerarlo, tra il serio e il faceto, l’unico vero libero anarchico in mezzo a tutta una massa di studenti fuori corso sempre pronti a condividere vino e chitarre, di punkabbestia con addosso quattrocento euro di piercing, di giovani insopportabilmente giovani. Era un uomo che aveva incontrato la nostra natura più ferina, e ci conviveva in maniera più o meno felice.
Il Barone era un povero cristo, uno di quelli che la vita ha trattato male. Uno di quelli a cui non si riesce a imputare colpe, anche quando ti sbraitava contro in preda a un delirio. Se avevi un minimo di intelligenza, senza neanche scomodare De André o i vangeli capivi che lui non era altro che uno dei tanti errori consegnatoci prima ancora che dalla società, dalla vita stessa. Da quella vita puttana e mediocre che qualcuno migliore di me l’ha così sapientemente definita. Quella vita contro la quale non vale la pena arrabbiarsi perché si sa che è ingiusta, ma che comunque trovi lo stesso la forza per farlo perché non è detto che un’ingiustizia si debba subire in silenzio.
Il Barone è morto nella notte tra il 2 e il 3 marzo e oggi gli hanno fatto il funerale nella chiesa del Gesù nuovo, la stessa chiesa sotto le cui porte si andava spesso a stendere per dormire, ubriaco di vino scadente e a volte con qualche livido di troppo per via delle botte che prendeva da chissà chi. Molte persone, oltre ai parenti, sono venuti a seguire la cerimonia. Diversi i ragazzi, che con più o meno sincerità, hanno voluto tributargli un ultimo saluto.
Ma qualsiasi testimonianza di affetto è sbiadita di fronte a quelle offertagli dai suoi colleghi, dai barboni come lui che sono venuti a vederlo andare via in una macchina delle pompe funebri. Nessuna parola, neanche queste quattro che sto tentando di scrivere al meglio che posso, potrà dargli un riconoscimento più onesto di quelli che ho visto stamattina, a partire dagli occhi gonfi, rossi e silenziosi di uno che chiede la carità su via Roma fino a quello un po’ vero e un po’ pretenzioso del tizio che al momento di mettere la bara nella macchina ha gridato “è tropp’ commod’ chiagnere a’na pirsona quann’ è muort si po’ durante a vita nun l’avit’ mai rat’ nu murz’ e pan’ ” (“è troppo comodo piangere una persona quando è morta se poi mentre era in vita non gli avete mai dato un pezzo di pane”). Ma il saluto forse più vero è stato quello del barbone – l’unico a essere entrato in chiesa – che durante la predica del prete, rompendo il silenzio della funzione, avanzava verso la bara con lo sguardo perso e il passo deciso dicendo “arò sta? Arò sta?” e, giunto vicino alla bara, l’accarezzava riverendola più e più volte.
Il tizio in questione chiaramente non c’era tanto con la testa, un po’ come il Barone stesso. E non voglio essere retorico, non dirò che mi è sembrato il più normale tra i presenti. Si vedeva bene che era matto e ha creato un po’ di imbarazzo durante la cerimonia. Ha rovinato abbastanza la solennità e la serietà del momento, ha messo in difficoltà il prete mentre stava parlando del dovere che abbiamo tutti noi nell’assistere i poveri; ha creato un leggero scompiglio tragicomico in mezzo agli ingranaggi della ritualità indossando la maschera grottesca della pazzia.
Ha fatto bene, il Barone lo avrebbe apprezzato.