Oggi sono stato a un funerale. Era quello del Barone.
Il Barone, al secolo Antonio Varvalla, sono in molti a
conoscerlo e in tanti a non sapere chi sia. Se siete di Napoli, o la
frequentate con una certa assiduità, o ci avete vissuto, allora di sicuro lo
conoscete. Ma anche se siete di Roma o Torino, potreste aver sentito parlare di
lui. La fama vola leggera, e quella del Barone aveva le ali del mito.
Già perché il Barone era un clochard, come direbbero i
giornali, oppure un barbone come si direbbe più facilmente e senza l’imbarazzo
formale della parola scritta; era però abbastanza unico nel suo genere.
Abbandonato a se stesso, vagava per certe piazze di Napoli, in genere quelle
vicine alla zona universitaria. Gradiva la scalcagnata presenza dei giovani, il
barone. Chissà come gli apparivano quelle cianfrusaglie che vanno e vengono
dalle aule universitarie, e che la sera si riuniscono sui gradini o all’entrata
di un bar.
Di sicuro lo divertivano, e lui divertiva molto loro. E se
pure il divertimento di chi lo vedeva era molto simile (o lo era proprio) a una
presa in giro, a me piace pensare che anche lui – lucido o meno – prendeva in
giro tutti.
E forse questo un po’ è vero. Il Barone era un emarginato,
ma lo era anche intellettualmente. Senza regole, senza padrone, senza morale;
più di una volta mi sono ritrovato a considerarlo, tra il serio e il faceto,
l’unico vero libero anarchico in mezzo a tutta una massa di studenti fuori
corso sempre pronti a condividere vino e chitarre, di punkabbestia con addosso
quattrocento euro di piercing, di giovani insopportabilmente giovani. Era un
uomo che aveva incontrato la nostra natura più ferina, e ci conviveva in
maniera più o meno felice.
Il Barone era un povero cristo, uno di quelli che la vita ha
trattato male. Uno di quelli a cui non si riesce a imputare colpe, anche quando
ti sbraitava contro in preda a un delirio. Se avevi un minimo di intelligenza,
senza neanche scomodare De André o i vangeli capivi che lui non era altro che
uno dei tanti errori consegnatoci prima ancora che dalla società, dalla vita
stessa. Da quella vita puttana e mediocre che qualcuno migliore di me l’ha così
sapientemente definita. Quella vita contro la quale non vale la pena
arrabbiarsi perché si sa che è ingiusta, ma che comunque trovi lo stesso la
forza per farlo perché non è detto che un’ingiustizia si debba subire in
silenzio.
Il Barone è morto nella notte tra il 2 e il 3 marzo e oggi
gli hanno fatto il funerale nella chiesa del Gesù nuovo, la stessa chiesa sotto
le cui porte si andava spesso a stendere per dormire, ubriaco di vino scadente
e a volte con qualche livido di troppo per via delle botte che prendeva da
chissà chi. Molte persone, oltre ai parenti, sono venuti a seguire la
cerimonia. Diversi i ragazzi, che con più o meno sincerità, hanno voluto
tributargli un ultimo saluto.
Ma qualsiasi testimonianza di affetto è sbiadita di fronte a
quelle offertagli dai suoi colleghi, dai barboni come lui che sono venuti a
vederlo andare via in una macchina delle pompe funebri. Nessuna parola, neanche
queste quattro che sto tentando di scrivere al meglio che posso, potrà dargli
un riconoscimento più onesto di quelli che ho visto stamattina, a partire dagli
occhi gonfi, rossi e silenziosi di uno che chiede la carità su via Roma fino a
quello un po’ vero e un po’ pretenzioso del tizio che al momento di mettere la
bara nella macchina ha gridato “è tropp’ commod’ chiagnere a’na pirsona quann’
è muort si po’ durante a vita nun l’avit’ mai rat’ nu murz’ e pan’ ” (“è troppo
comodo piangere una persona quando è morta se poi mentre era in vita non gli
avete mai dato un pezzo di pane”). Ma il saluto forse più vero è stato quello
del barbone – l’unico a essere entrato in chiesa – che durante la predica del
prete, rompendo il silenzio della funzione, avanzava verso la bara con lo
sguardo perso e il passo deciso dicendo “arò sta? Arò sta?” e, giunto vicino
alla bara, l’accarezzava riverendola più e più volte.
Il tizio in questione chiaramente non c’era tanto con la
testa, un po’ come il Barone stesso. E non voglio essere retorico, non dirò che
mi è sembrato il più normale tra i presenti. Si vedeva bene che era matto e ha
creato un po’ di imbarazzo durante la cerimonia. Ha rovinato abbastanza la
solennità e la serietà del momento, ha messo in difficoltà il prete mentre
stava parlando del dovere che abbiamo tutti noi nell’assistere i poveri; ha
creato un leggero scompiglio tragicomico in mezzo agli ingranaggi della
ritualità indossando la maschera grottesca della pazzia.
Ha fatto bene, il Barone lo avrebbe apprezzato.