Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

venerdì 7 marzo 2014

L'illustre estinto

Oggi sono stato a un funerale. Era quello del Barone.
Il Barone, al secolo Antonio Varvalla, sono in molti a conoscerlo e in tanti a non sapere chi sia. Se siete di Napoli, o la frequentate con una certa assiduità, o ci avete vissuto, allora di sicuro lo conoscete. Ma anche se siete di Roma o Torino, potreste aver sentito parlare di lui. La fama vola leggera, e quella del Barone aveva le ali del mito.
Già perché il Barone era un clochard, come direbbero i giornali, oppure un barbone come si direbbe più facilmente e senza l’imbarazzo formale della parola scritta; era però abbastanza unico nel suo genere. Abbandonato a se stesso, vagava per certe piazze di Napoli, in genere quelle vicine alla zona universitaria. Gradiva la scalcagnata presenza dei giovani, il barone. Chissà come gli apparivano quelle cianfrusaglie che vanno e vengono dalle aule universitarie, e che la sera si riuniscono sui gradini o all’entrata di un bar.
Di sicuro lo divertivano, e lui divertiva molto loro. E se pure il divertimento di chi lo vedeva era molto simile (o lo era proprio) a una presa in giro, a me piace pensare che anche lui – lucido o meno – prendeva in giro tutti.
E forse questo un po’ è vero. Il Barone era un emarginato, ma lo era anche intellettualmente. Senza regole, senza padrone, senza morale; più di una volta mi sono ritrovato a considerarlo, tra il serio e il faceto, l’unico vero libero anarchico in mezzo a tutta una massa di studenti fuori corso sempre pronti a condividere vino e chitarre, di punkabbestia con addosso quattrocento euro di piercing, di giovani insopportabilmente giovani. Era un uomo che aveva incontrato la nostra natura più ferina, e ci conviveva in maniera più o meno felice.
Il Barone era un povero cristo, uno di quelli che la vita ha trattato male. Uno di quelli a cui non si riesce a imputare colpe, anche quando ti sbraitava contro in preda a un delirio. Se avevi un minimo di intelligenza, senza neanche scomodare De André o i vangeli capivi che lui non era altro che uno dei tanti errori consegnatoci prima ancora che dalla società, dalla vita stessa. Da quella vita puttana e mediocre che qualcuno migliore di me l’ha così sapientemente definita. Quella vita contro la quale non vale la pena arrabbiarsi perché si sa che è ingiusta, ma che comunque trovi lo stesso la forza per farlo perché non è detto che un’ingiustizia si debba subire in silenzio.
Il Barone è morto nella notte tra il 2 e il 3 marzo e oggi gli hanno fatto il funerale nella chiesa del Gesù nuovo, la stessa chiesa sotto le cui porte si andava spesso a stendere per dormire, ubriaco di vino scadente e a volte con qualche livido di troppo per via delle botte che prendeva da chissà chi. Molte persone, oltre ai parenti, sono venuti a seguire la cerimonia. Diversi i ragazzi, che con più o meno sincerità, hanno voluto tributargli un ultimo saluto.
Ma qualsiasi testimonianza di affetto è sbiadita di fronte a quelle offertagli dai suoi colleghi, dai barboni come lui che sono venuti a vederlo andare via in una macchina delle pompe funebri. Nessuna parola, neanche queste quattro che sto tentando di scrivere al meglio che posso, potrà dargli un riconoscimento più onesto di quelli che ho visto stamattina, a partire dagli occhi gonfi, rossi e silenziosi di uno che chiede la carità su via Roma fino a quello un po’ vero e un po’ pretenzioso del tizio che al momento di mettere la bara nella macchina ha gridato “è tropp’ commod’ chiagnere a’na pirsona quann’ è muort si po’ durante a vita nun l’avit’ mai rat’ nu murz’ e pan’ ” (“è troppo comodo piangere una persona quando è morta se poi mentre era in vita non gli avete mai dato un pezzo di pane”). Ma il saluto forse più vero è stato quello del barbone – l’unico a essere entrato in chiesa – che durante la predica del prete, rompendo il silenzio della funzione, avanzava verso la bara con lo sguardo perso e il passo deciso dicendo “arò sta? Arò sta?” e, giunto vicino alla bara, l’accarezzava riverendola più e più volte.
Il tizio in questione chiaramente non c’era tanto con la testa, un po’ come il Barone stesso. E non voglio essere retorico, non dirò che mi è sembrato il più normale tra i presenti. Si vedeva bene che era matto e ha creato un po’ di imbarazzo durante la cerimonia. Ha rovinato abbastanza la solennità e la serietà del momento, ha messo in difficoltà il prete mentre stava parlando del dovere che abbiamo tutti noi nell’assistere i poveri; ha creato un leggero scompiglio tragicomico in mezzo agli ingranaggi della ritualità indossando la maschera grottesca della pazzia.
Ha fatto bene, il Barone lo avrebbe apprezzato.


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