23 / 7 / 2013
GIFFONI, FINE PRIMO TEMPO
Avete presente la vecchia abitudine di quei adorabili cinema
esistenti prima dell’avvento del Surround, delle pellicole in HD e del 3D?
Quella di interrompere a metà un film con tanto di scritta e segnalante che il
film sarebbe ripartito tra cinque minuti? Quella che – nostalgie a parte – è
stata giustamente sostituita dalla proiezione ininterrotta, perché rimane
comunque un po’ spiacevole bloccare la narrazione.
Bene, vi ricordate cosa succedeva in quell’occasione? Le
luci si riaccendevano e il pubblico sembrava risvegliarsi da uno status più o
meno ipnotico. La realtà rientrava timidamente di nuovo in circolo nei polmoni
ma seppure gli occhi vedevano frotte di gente stiracchiarsi o approfittarne per
andare in bagno, nella mente ronzava uno sciame di piccoli pensieri che
fondamentalmente ti chiedevano: “e adesso… cosa sta per succedere?”
riferendosi, ovviamente, alla pellicola che faticava a uscirsene dal cervello.
Come è giusto che fosse, del resto.
Oggi impegni improrogabili mi hanno portato altrove (uno di
questi è stato consegnare alcune copie del “CittadinoNews” di questo mese a
Tullio Pironti, il proprietario di una delle più importanti case editrici di
Napoli, dopo che lui espressamente lo ha richiesto). Per me questa pausa è la
fioca luce giallognola dell’intervallo che si insinua nei bordi degli occhi al
posto del buio della proiezione. Rotto l’ipnotismo narrativo in cui si viene
immersi, i pochi minuti di realtà concedono la possibilità di riformulare quasi
a freddo quanto visto finora.
E’ stato esattamente ciò che ho fatto durante la mia
personale interruzione.
Preciso e premetto che questo non significa che il Giffoni
Film Festival possa essere stato finora un gioco illusorio al quale mi sono
prestato senza la dovuta necessità (sarei stato decisamente un mediocre
giornalista, nel caso). Anzi, credo che l’opportunità di guardare il tutto con
calma non abbia fatto altro che confermare quanto io ho da sempre sostenuto, e
cioè l’accurato ingranaggio commerciale, politico e sociale che il Festival è
(e a mio avviso deve essere), cercando di tenere chiaramente alti o quantomeno
accettabili gli standard culturali. Di più, questa pausa mi ha forse permesso
di fare ancora meglio il mio lavoro perché mi ha portato a riflettere con
lucidità su quanto ho percepito finora, perché – come già detto altrove – ciò
che ho intenzione di fare è soprattutto osservare il rifrangersi delle onde
lunghe dell’evento lungo le coste circostanti a esso.
I miei occhi – che stavano lì, a differenza di quanti
giudicano pur non essendo presenti – hanno visto innanzitutto una passerella di
divi che nel meccanismo commerciale possono essere considerati di primo o
secondo ordine, o, a seconda dei gusti, simpatici o antipatici. Poi hanno visto
il pubblico pagante – ricordando De Gregori – che li desidera vedere, questi
divi. Dopodiché hanno messo a fuoco gli incontri di tanti di questi ospiti con
la Masterclass, un progetto educativo e lavorativo (a metà tra il sociale e il
commerciale) che non sono per nulla da ignorare. Ancora, ho visto un lavoro di
promozione teatrale e musicale fatto di spettacoli e concerti che purtroppo,
come già spiegato altrove è talmente tentacolare che nonostante i nostri sforzi
non riusciamo a riportare. Ho assistito inoltre a dibattiti interessanti –
anche se riservati alla stampa – ma anche a incontri degli ospiti con le giurie
trasmessi pubblicamente a beneficio di tutti. Ho dato uno sguardo a prodotti
cinematografici interessanti. Ho notato una serrata campagna promozionale di
prodotti tipici della zona, e dunque ho visto come attirare interesse mediatico
su di un paese.
Ho visto tante di quelle cose che mi sembra di essere Roy
Batty nel finale di “Blade runner”.
Poi ho visto anche le percezioni del Festival qui a
Montecorvino Rovella ed è forse questo l’aspetto che mi affascina di più e che
credo tratterò con più frequenza perché appartengo inevitabilmente a questo
paese ed è dunque mio dovere osservarlo con attenzione. Ho riportato con
estremo piacere come la voglia di essere partecipi e condividere questo momento
di introiti e di catalizzazione culturale/commerciale (perché – ricordo a chi
non è del mestiere – la cultura deve produrre profitti e nonostante l’ex
ministro Tremonti intendesse fare una squallida battuta, con Dante ci dobbiamo
veramente fare un panino, perché la cultura può e deve nutrire le persone sia
intellettualmente che materialmente), così come ho rilevato con disappunto
l’atteggiamento di sufficienza e snobismo odiosamente radical chic che si è
usato verso gli aspetti più superficiali della manifestazione. Come se bastasse
un Siani per offuscare un Saviano o un Giannini. Se c’è logica in questo,
confesso di faticare a capirla.
E poi improvvisamente le luci in sala iniziano a smorzarsi e
il pubblico sa che a breve lo spettacolo riprenderà il suo corso. Sta per
inziare il secondo tempo: da domani sarò di nuovo a fare il mio lavoro nel
miglior modo a me possibile, e mi viene da pensare che per un giorno, la mia
assenza ha riguardato sempre e solo me, mentre il festival è andato avanti, ha
continuato ad attrarre persone, ha fatto il suo dovere. Io non c’ero, e
semplicemente l’ho perso, così come tutte quelle persone che non riescono a
pensare di ricavarne qualcosa di buono in realtà non fanno altro che perdere
possibilità, più che il festival in sé e per sé.
“Fuori tutto accade anche senza di noi”, dice Capossela in
quello che considero uno dei suoi versi più ispirati. Se non fosse il sunto di
un esistenzialismo tutto privato e personale del suo autore, potrebbe essere –
in più di un’occasione – la scritta da apporre subito sotto al cartello che dà
il benvenuto nel nostro paese.
Nessun commento:
Posta un commento