Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

mercoledì 27 giugno 2012

Sulla natura del simbolo




Nel mio mestiere di studioso (essendo io cosciente del fatto che al giorno d’oggi non è quasi più un mestiere ma non per questo meno orgoglioso di rivendicarmi come tale) mi sono da sempre autoimposto una regola ben precisa, e cioè che il ruolo implichi la conoscenza del visibile e l’intuizione di ciò che è nascosto (ricordando sempre però che, come diceva Wilde, il vero mistero della vita non è l’invisibile, bensì il visibile). Mai dogma fu più utile, soprattutto nell’analisi del simbolo, che da tempo è oggetto di studi e interessi personali.
Studiare la natura del simbolo vuol dire imboccare una strada che quanto più ti introduce al suo interno, tanto più si dirama. Il simbolo è un artefatto dalle proprietà fortemente trascendenti all’uomo. E’, a mio avviso, uno di quei prodotti dell’intelletto umano capace di svellersi da ogni stretto controllo di quest’ultimo e riuscire persino a sovrastarlo. I simboli sono creazioni umane, ma migliaia e milioni sono le persone che nel corso della Storia si sono poste sotto di loro. Essi hanno guidato guerre, rovesciato Stati, illuso o infiammato popoli interi. Il simbolo infonde coraggio, stabilisce dei credo, si impone sugli altri. Valga su tutti, fra le miriadi di esempi, quell’ in hoc signo vinces che ha deciso le sorti e il futuro (storico e religioso) di un impero quale quello di Roma. E’ con il segno che si vince. Non con le armi, non con il numero di soldati. E’ la forza del segno che stabilisce il destino di un’impresa. C’è veramente molto da riflettere su questo episodio e sul suo significato: pare segni quasi la nascita della belligeranza tattica.
 Il simbolo ha poi una caratteristica fondamentale che a questo mondo sono davvero poche le cose che la condividono: perdura senza sosta. Sopravvive all’uomo e al tempo stesso. Forse è per questo che l’uomo, intuendo inconsciamente questa sua eternità, trova così facile sottomettersi a lui.
Attenzione: è importante fare le dovute distinzioni. Il simbolo non è icona né bandiera né logo (per adattarci ai nostri tempi). Lo si capisce dal fatto che mentre queste ultime sono espressioni a cui viene dato credito e forza, il simbolo opera attraverso un delicato ma preciso meccanismo socio-culturale (ed anche in parte esoterico) che la forza la genera. Dunque nel rapporto tra lui e l’uomo egli ha parte attiva e il secondo passiva, o meglio, ricettiva. Ma questo rapporto, continuato nel tempo, non rimane impari, perché a un certo punto l’uomo, arrivando a comprenderne la natura più intima, si identifica con esso e i due si equivalgono.
La natura formale del simbolo lo vede soprattutto nelle vesti di un segno. Antropologicamente parlando, infatti, il segno è la prima e immediata espressione umana. Qualsiasi libro di storia dell’arte nelle sue prime pagine riporta le pitture rupestri degli uomini primitivi – e fa bene a farlo –. Tuttavia c’è da tenere presente che esse non sono rappresentazioni ma segni. Questo perché la rappresentazione è sempre una mimesi (anche l’astrattismo lo è: quella del concetto), il segno invece è un identificativo. In quelle pitture, così primordiali eppure – si noti – così potenti, c’è molto di più che una traccia di sé: c’è un’istruzione, un credo, una forza. Come se dicessero “questo siamo, questo è ciò che facciamo”. Ed è talmente vera questa condizione che l’essere umano l’ha trascinata con sé attraverso le grandi civiltà orientali, poi in quella egiziana e finanche quella greca. E’ anzi maggiormente emblematico che la civiltà greca, così artistica di natura, abbia virato verso l’attenzione anatomica solo in un momento avanzato della sua storia. E il tutto assolutamente non dovuto per un miglioramento di abilità, ma per una precisa scelta sociale. Già Bianchi Bandinelli, infatti, faceva notare che gli artisti greci fossero in grado di ritrarre le persone in maniera fisiognomica (caratteristica che apparterrà soprattutto a Roma), ma che non fossero interessati a farlo, perché la loro arte puntava a scopi diversi.
Il simbolo/segno dunque ha perdurato a lungo nella manifattura umana e nel suo animo ha covato e lasciato le spore che oggi ci rende antropologicamente più familiare quel rapporto tra noi e lui di cui dicevo prima.
Esso è dunque una forza in potenza che comunica e istruisce. E’ un percorso che, come una scatola cinese, nasconde un significante dentro un significato e via così, fin quando, giunto al limite ultimo, si rivela in tutta la sua completezza.
            Altra caratteristica fondamentale del simbolo, nonché secondo punto di forza, è la sua innata polivalenza. Un simbolo non è mai un’indicazione univoca. Esattamente come ho detto prima, è un percorso e una matrioska che si offre in diversi stadi di conoscenza. E’ un incrocio, un crocevia di sensi. Collega l’alto con il basso, l’Oriente all’Occidente, il rivelato con il nascosto. Si pensi ad alcuni dei grandi simboli sociali della Storia: la croce cristiana, la svastica (la intendo qui nella sua accezione nazista), la falce e il martello comunista. Notiamo come siano tutti simboli “di massa” (gli stessi sotto i quali si pongono gli uomini di cui parlavo sopra) e tutti contengono un’intersezione, perché essa esprime forza, unione, potenza e inviolabilità. Mi sembra qui superfluo nominare lo stesso incrocio presente tra compasso e squadra. E’ questo un gioco mistico e sociale che fa leva (e quindi proseliti) sugli istinti ricettivi primari dell’uomo. Si noti, inoltre, come anche qui venga rispettata la natura ultima del simbolo, in quanto alla fine l’uomo asservitosi ad esso si identifica con quello. Ma con la differenza fondamentale che mentre qui si tratta di una tacita assuefazione per fede, in altri casi, come quello della Massoneria, il simbolo stesso chiede di essere interrogato, poi colto e solo dopo che sia stato fatto proprio (cioè quado il Massone ha preso padronanza di esso) si esplica nella sua natura identificativa.
            C’è poi da rilevare l’aspetto polifunzionale del ruolo che ha all’interno del percorso massonico. Esso si pone contemporaneamente come un qualcosa dal quale apprendere e farsi guidare, ma, approfondendo la sua conoscenza, diventa un qualcosa al quale dare e darsi. Il simbolo ha poi il vantaggio di essere allo stesso tempo segreto ed aperto. Chi non ha occhi giusti per vederlo, ne percepirà sempre solo ed esclusivamente l’aspetto formale ma non eidetico. Confacendosi quindi ai dettami della Loggia, il simbolo è una mano chiusa a pugno: tiene, trattiene, racchiude, conserva, nasconde ma allo stesso tempo è in potenza un qualcosa che si schiude, si apre, mostra, rivela ed accoglie.  
            Irène Mainguy, in un’opera di mirabile completezza (almeno per i profani) quale “la Simbolica Massonica del Terzo Millenio”, nel riferire l’etimologia di “simbolo” omette un particolare che io trovo fondamentale. Riportando la natale parola greca symbolon, non ne offre l’origine più pura che è quella di syn (“con”, “insieme”) più il verbo ballo (“lancio” ma anche “pongo”), ottenendo così un’espressione che vuol dire “metto insieme”. Ecco dunque che fin nella sua natura più primeva il simbolo si presenta come un legamento di concetti.
Lo sa bene, appunto, la tradizione massonica che non a caso si fonda sull’interazione con i simboli e da simboli stessi è completamente circondata. E non c’è assolutamente bisogno di essere sognatori o romantici per poter comprendere che la forza della sua perpetuità – nonché dei suoi riti – è dovuta soprattutto ad essi.  
Quello del massone è un cammino che arriva tanto lontano, ed è fatto tanto bene proprio grazie ad una scelta estremamente oculata dei suoi simboli. Anche il profano non può che rimanere affascinato dalla precisa perfezione della corrispondenza simbolica: si pensi, ad esempio, all’uso dei numeri, in particolare al tre. Riti, segni, e momenti che in maniera minore o maggiore ritornano nelle varie logge sotto numero di tre. Toccamenti, gerarchie e strutture che si stabilizzano nella triade, dove la triade stessa si identifica nell’ideale “inizio – mezzo – fine” che a sua volta postula l’idea della medias res sia quale punto di giusto equilibrio tra le cose sia come momento di continenza, ma allo stesso tempo anche momento di svolta e cambiamento.
            Tre sono inoltre i punti necessari per creare la prima figura geometrica, posta tra i due punti della linea (continua e infinita) e il numero sempre maggiore di punti che di volta in volta crea forme diverse sino ad autoconcludersi nella forma finale che è il cerchio. La forma che si ottiene con il minor numero di punti possibili atti a creare una figura è dunque il triangolo, primo grande testimone della mente scientifica dell’uomo, nonché viatico principale di uno dei grandi iniziati quale fu Pitagora. E a riprova di quanto ho detto all’inizio, da questo punto il concetto prende a diramarsi. Infatti, da un “lato” (mi si scusi il gioco di parole) il triangolo lo si ritrova tanto nelle prime operazioni geometriche quanto in quelle più complesse, fino a raggiungere perfino le sue applicazioni nell’architettura (e invito ancora a riflettere su quanto di quello che sto dicendo si ritrovi nella Massoneria): chiunque infatti abbia studiato i primi rudimenti di questa scienza conoscerà senz’altro il metodo della trilaterazione (e quello della triangolazione), un metodo che prevede l’utilizzo di una serie di triangoli per riuscire a stabilire con massima esattezza la determinata posizione di un punto nello spazio. Ma da un altro lato il triangolo trova una sua differente interpretazione sotto la forma alfabetica di delta greco. E qui si apre un nuovo orizzonte semantico. Il delta è una delle poche lettere dell’alfabeto (se non l’unica, volendo non essere estremamente puntigliosi) a non aver mai subito modifiche tra i vari alfabeti greci (si tenga presente che, prima di una definitiva adozione a livello nazionale dei caratteri milesi – quelli che oggi si studiano nei licei –  avvenuta nel 403/402 a. C., ogni regione della Grecia aveva un suo diverso alfabeto che presentava forme più o meno differenti di una stessa lettera). Non è da sottovalutare questa “casuale” coerenza idiomatica (e uno studioso sa che nel corso della Storia, quasi nulla è dovuto al caso). Delta è poi l’iniziale del nome del padre degli dei Zeus, ma, sempre “casualmente” è anche il nome che ha etimologicamente dato vita al termine “deus”, diventato poi “dio” e realizzatosi nell’identificativo “Dio” per indicare il Signore dei cristiani. La declinazione di Zeus, infatti, si completa appunto con il termine “Diòs” nei casi genitivo, dativo e accusativo.
            E ancora ci sarebbe da dire sul triangolo come forma artistica ed architettonica, quali le piramidi, oppure meglio ancora la forma triangolare con cui vengono costruite le statue dedaliche durante l’arcaismo greco, che appunto struttura l’uomo a gruppi di triangoli (busto, testa e capigliatura che richiama quasi sempre il “klaft” egizio).
            Ecco come il simbolo si mimetizza, cambia pelle, si nasconde e rivela a tratti alterni; assume diverse sembianze e calza sfumature. Sotto questo punto di vista, per alcuni aspetti l’intera storia dell’arte è storia del simbolo rappresentato. Perfino il paesaggismo inglese del ‘700, che può sembrare un genere superficialmente banale, nasconde il simbolo di un qualcosa dietro. E’ semplicemente più steso e più diluito rispetto ad altri momenti. Nel movimento simbolista trova una sua espressione più diretta, ma una mente critica non può non riconoscere tale espressione anche nelle forme di Michelangelo, così come, andando più indietro, la si vede negli attributi degli dei (uno fra i tanti, il melograno, sacro a Persefone, che ancora una volta ritroviamo nella simbolica massonica).
            Giungiamo a questo punto ad un’ultima capitolazione. Il simbolo è anche parola. La parola intesa come codice, come sequenza di lettere. La sua affermazione più forte in tal senso è l’acronimo (accanto al suo fratello più letterario acrostico). Anche in questo campo la Massoneria è ben preparata, basti pensare all’uso delle lettere iniziali in una titolatura. O ancora in esempi come “V.I.T.R.I.O.L.” che trovo particolarmente interessante perché è uno di quei casi in cui l’acronimo diviene quasi parola a senso compiuto e oltre ad essa si tramuta in suono, dimostrandoci infine che il simbolo può anche essere fonè.
            Sul ruolo del simbolo/parola ci sarebbe tanto altro da dire, ma è pur giusto non divagare ulteriormente in un argomento che è di per sé paurosamente vasto. Ma sul rapporto tra parola/simbolo e simbolo/Massoneria, vorrei segnalare un’interessante esempio che è allo stesso tempo un’affascinante disquisizione. Si tratta della prima strofa di “Corrispondenze”, poesia tratta da “I fiori del male” di Baudelaire. Che io sappia, in nessun testo né saggio – di letteratura o sulla Massoneria – è riportata la considerazione che mi accingo a presentare. La mia umiltà mi porta a ritenere che questa assenza sia dovuta al fatto di non esserci mai stato motivo nel segnalarla, ma d’altra parte la ritengo un passo troppo stimolante per lasciarla completamente al caso. I versi recitano così:

“La Nature est un temple où de vivants piliers
Laissent perfois sortir de confuses paroles;
L’homme y passe à travers des forêts de symboles
Qui l’observent avec des regards familiers”

“E’ un tempio la Natura, dove a volte parole
escono confuse da viventi pilastri;
e l’uomo l’attraversa tra foreste di simboli
che gli lanciano occhiate familiari”

            Io credo che qualsiasi Fratello sia in grado di riconoscere in ogni singolo verso un riferimento più o meno esplicito. E’, a mio avviso, abbastanza immediato pensare, nel primo verso, al Tempio di Salomone, tanto più che nello stesso rigo (in originale) si parla di “pilastri” identificati come “viventi”. Come non pensare, dunque, ai due pilastri di una Loggia riportanti le lettere J e B e quindi in un certo senso “parlanti”?
            Abbiamo poi un “uomo che attraversa una foresta di simboli” che io individuerei nella marcia dell’affiliato. Sulla “foresta di simboli” mi sembra superfluo disquisire per quanto sia didascalica come immagine. Notiamo, in ultimo, che suddetti simboli “lanciano occhiate familiari” e qui è ugualmente facile immaginare uno dei simboli più forti e comunicativi, quello dell’occhio centrato della conoscenza.
            Come dicevo sopra, si tratta di una mia riflessione personale che non si basa su teorie precedenti e dunque mi limito soltanto ad offrirla come curiosità intellettuale, ma da semplice profano sono felice di consegnarla a quanti che, partecipi e protagonisti della materia, possono maggiormente apprezzarla.
            Mi sembra giusto concludere, così come è stato per l’inizio, questo articolo citando nuovamente Wilde, che provvidenziale e illuminante come sempre, ci ricorda che “l’Arte è un simbolo perché l’Uomo è un simbolo”. Ora tocca a noi trarre le conclusioni.



Nessun commento:

Posta un commento