Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

mercoledì 27 giugno 2012

Fallo di mano (di artigiano)




A leggere il titolo della mostra, “Scolpire l’erotismo”, un brivido di sconforto mi era salito lungo la schiena. Niente di personale, ma trovo l’erotismo (nella sua accezione moderna e impacchettata) una cosa noiosa e stucchevole. L’erotismo è un po’ come lo studente del secondo anno di università, saccentello e brufoloso. Io parteggio decisamente per il porno di beniana memoria. L’eccesso, l’al di là del principio del piacere, quello si che è il vero terreno fertile per filosofia e arte su un tale argomento. L’erotismo finisce sempre per essere, prima o poi, sterile e presuntuosetto, mentre invece l’osceno, nella sua natura di o-skenè (“fuori dalla scena” e quindi dal normale visibile) è invece il vero orizzonte altro capace di mostrare il nascosto. Questa mostra è, per mia opinione, più orientata verso suddetta sfumatura piuttosto che verso l’erotismo, sia esso inteso nel senso più classico ed elegiaco sia in quello più superficiale.
            L’evento è ospitato (fino al 15 luglio) nella mediateca Mediamarte di Cava de’ Tirreni, un piccolo gioiellino di architettura che gode il favore di una interessante cornice urbanistica. Già entrarci è un piacere: è uno di quegli strani posti un po’ eremi delicati e un po’ vestiti da professionalissimi musei contemporanei, con i loro ambienti eburnei in vetro e cemento. La sala dove è stata approntato l’allestimento è accogliente e funzionale al suo scopo. Buona la posizione dei manufatti, intrecciante un dialogo aperto con le luci al neon che risaltano e paiono levigare ulteriormente gli smalti lucidi e scorrevoli sui quali l’occhio scivola abbastanza piacevolmente. Forse qualche didascalia dissertativa in più sarebbe stata apprezzabile, ma c’è anche da dire che il tutto è felicemente introdotto da un supporto audiovisivo riportante un’intervista dello stesso autore che illustra direttamente il suo pensiero (dio, che bello quanto un artista non si arrocca in una torre d’avorio né si ammanta di ermetici, simbolici, silenzi. E soprattutto, dio che bello quando artisti e curatori si accorgono che niente di meno siamo nel 2012 per cui la multimedialità, ben dosata, può essere cosa utile e gradita).
            La mostra, realizzata da Raffaele Falcone, è di per sé concepita in tre grandi gruppi di opere: quello dei “corni” (che io preferisco indentificare piuttosto quali “fiamme della fornace”, così come è indicato dalla didascalia), quello dei grandi “falli” e quello della “scacchiera impossibile”, una costruzione regolare composta dai cosiddetti “butt plug”. Sono queste tutte opere frutto di un lavoro di fornace, e la tangibilità amabilmente sporca e pastosa di queste creazioni artistiche la si avverte in pieno. La si sente, innanzitutto, dalla grandezza delle proporzioni: tutto è forte, smisurato, potente. E’ un prodotto artistico che strizza l’occhio a correnti quali il Primitivismo e il meno noto Brutalismo, ma contemporaneamente si mette educatamente all’ombra di rimandi dell’arte classica (greci e romani in primis la facevano da padrone nell’arte del priapismo). Eppure c’è un ulteriore rimando, sicuramente più sfumato ma che io trovo per certi aspetti più interessante, agli Shunga, un particolare tipo di stampe Ukiyo di natura erotica circolanti in Giappone durante l’epoca Edo (1600 circa). Queste stampe, all’epoca considerate espressione popolare ma in seguito molto rivalutate da critici e estimatori, hanno la caratteristica di rappresentare uomini e donne dagli organi genitali spropositatamente grandi. Due anni fa a Milano ce ne fu un’interessante mostra, in proposito. Sento queste espressioni artistiche più vicine al discorso di Falcone perché mi piace notare come l’apprezzamento e l’uso simbolico del fallo sia ancora oggi, in terra d’Oriente, oggetto di manifestazioni locali. Ma soprattutto è interessante notare come l’esposizione dell’organo genitale in suddette celebrazioni sia una cosa libera, normale e festosa, ma contemporaneamente, quando essa assume il carattere erotico nei film pornografici, esso viene inderogabilmente censurato e nascosto. C’è da riflettere su questa ambivalenza e sull’uso che se ne fa: è quasi come se la cultura giapponese volesse comunicare il lecito del fallo come simbolo e l’illecito del fallo come semplice strumento fisiologico.
            E’ nel rapportarsi a questi esempi che io ho visto – piacevolmente, a mio avviso – l’assenza dell’erotismo in senso lato e avuto la possibilità di percepire al suo posto l’oggetto “o-sceno”, vale a dire l’oggetto che sta oltre, che è andato altrove, essendo denaturato dalla sua appendice umana e redatto in forma pantagruelica e grottesca in un tempo; consacrato ad una natura e forma apotropaica.
            Non è da sottovalutare, inoltre, l’ironia con la quale la mostra e i suoi singoli pezzi sono stati creati. Personalmente, ho sempre riscontrato a prescindere un che di comico nell’industria del porno e confesso che la realizzazione di un’oggettistica così ricca e variegata della sua strumentazione mi ha sempre regalato un paio di risate. Questo perché fondamentalmente è la prova di quanto, sotto alcuni aspetti, l’essere umano sia ripiegato su se stesso, poiché da tanta importanza e tanto suo ingegno nell’inventare migliaia di modi differenti solo ed unicamente per eiaculare. E’ su questa falsariga che si innestano i butt plug (e non azzardatevi a confonderli con i dildos come ho sentito fare durante la mia visita alla mostra: i pornomani spietati nella loro kafkiana precisione ce ne insegnano la differenza fondamentale), ed è soprattutto con loro che si coglie il passaggio che va dall’oggetto/strumento erotico all’oggetto/manufatto artistico, il tutto avvenendo quasi solo semplicemente tramite un ingrandimento di proporzioni (la cosa divertente è che molti veri butt plug hanno effettivamente forme fantasiose ed estremamente creative per cui riesce più o meno divertente notare un certo rapporto di “chi copia chi”, quasi come se le due tipologie di prodotti – strumento e opera d’arte – giochino ad imitarsi a vicenda. E, in fondo, a prendersi in giro da soli).
            C’è poi, dietro tutto questo, l’aspetto che io considero più importante, e che apprezzo di più. Infatti, dietro il gigantismo di ogni pezzo, dietro l’ironia, dietro l’abilità e l’intento artistico, più di tutto brilla la dignità e la certa superiorità che solo il lavoro artigianale riesce a comunicare. Personalmente, sono uno di quelli che ha sempre ritenuto l’arte un qualcosa fatto di mani sporche, di sudore e frustranti tentativi. Di lavorio continuo, minimo, lento e stancante. Qualcosa che reclama schiene curve e muscoli doloranti. Qualcosa, insomma, che faccia vivere la materialità corposa del prodotto artistico. E in queste opere lo si vede tutto: è proprio lì, nell’argilla, testimoniato dalla piccola elegante imperfezione, dal segno dello smalto colato mentre si asciugava, dalla scheggiatura invisibile e seminascosta, dalle forme orgogliosamente non calibrate poiché per loro fortuna non appartengono all’insopportabilmente noioso processo di perfezione industriale.
            Un ultimo modesto consiglio: si eviti di visitare una mostra del genere con il riflusso di troppi intellettualismi in testa. Le conoscenze artistico-critiche devono stare in mente solo in veste di necessario postulato che spieghi a sufficienza l’origine antica nonché il senso recondito di un’esposizione del genere. Basti quindi giusto sapere che il lavoro di Raffaele Falcone è provocatorio nella sua originalità, ma anche ripresa e perpetuità di una tradizione antropologica e artistica ben nota e riconosciuta. Eccessive speculazioni e/o elucubrazioni semantiche che tanto danno da mangiare ai critici (e i mercanti) d’arte contemporanea rischiano di ferire nel vivo l’impatto primevo e raggiante che questi manufatti hanno. I sofisticati sofismi di dotti che spalmano parole su parole (forse proprio perché un po’ spaesati di fronte a opere del genere), ricercando fino all’ultimo la sublimazione di concetti e filosofumi vari, lasciano molto il tempo che trovano. Osservate questa mostra con gli occhi e lo stomaco, e diffidate di chi ha troppo da dire sulla natura del fallo: probabilmente non ha capito un cazzo.

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