A leggere il
titolo della mostra, “Scolpire l’erotismo”, un brivido di sconforto mi era
salito lungo la schiena. Niente di personale, ma trovo l’erotismo (nella sua
accezione moderna e impacchettata) una cosa noiosa e stucchevole. L’erotismo è
un po’ come lo studente del secondo anno di università, saccentello e
brufoloso. Io parteggio decisamente per il porno di beniana memoria. L’eccesso,
l’al di là del principio del piacere, quello si che è il vero terreno fertile
per filosofia e arte su un tale argomento. L’erotismo finisce sempre per
essere, prima o poi, sterile e presuntuosetto, mentre invece l’osceno, nella
sua natura di o-skenè (“fuori dalla
scena” e quindi dal normale visibile) è invece il vero orizzonte altro capace
di mostrare il nascosto. Questa mostra è, per mia opinione, più orientata verso
suddetta sfumatura piuttosto che verso l’erotismo, sia esso inteso nel senso
più classico ed elegiaco sia in quello più superficiale.
L’evento
è ospitato (fino al 15 luglio) nella mediateca Mediamarte di Cava de’ Tirreni,
un piccolo gioiellino di architettura che gode il favore di una interessante
cornice urbanistica. Già entrarci è un piacere: è uno di quegli strani posti un
po’ eremi delicati e un po’ vestiti da professionalissimi musei contemporanei,
con i loro ambienti eburnei in vetro e cemento. La sala dove è stata approntato
l’allestimento è accogliente e funzionale al suo scopo. Buona la posizione dei
manufatti, intrecciante un dialogo aperto con le luci al neon che risaltano e
paiono levigare ulteriormente gli smalti lucidi e scorrevoli sui quali l’occhio
scivola abbastanza piacevolmente. Forse qualche didascalia dissertativa in più
sarebbe stata apprezzabile, ma c’è anche da dire che il tutto è felicemente
introdotto da un supporto audiovisivo riportante un’intervista dello stesso
autore che illustra direttamente il suo pensiero (dio, che bello quanto un
artista non si arrocca in una torre d’avorio né si ammanta di ermetici,
simbolici, silenzi. E soprattutto, dio che bello quando artisti e curatori si
accorgono che niente di meno siamo nel 2012 per cui la multimedialità, ben
dosata, può essere cosa utile e gradita).
La
mostra, realizzata da Raffaele Falcone, è di per sé concepita in tre grandi
gruppi di opere: quello dei “corni” (che io preferisco indentificare piuttosto
quali “fiamme della fornace”, così come è indicato dalla didascalia), quello
dei grandi “falli” e quello della “scacchiera impossibile”, una costruzione
regolare composta dai cosiddetti “butt plug”. Sono queste tutte opere frutto di
un lavoro di fornace, e la tangibilità amabilmente sporca e pastosa di queste
creazioni artistiche la si avverte in pieno. La si sente, innanzitutto, dalla
grandezza delle proporzioni: tutto è forte, smisurato, potente. E’ un prodotto
artistico che strizza l’occhio a correnti quali il Primitivismo e il meno noto
Brutalismo, ma contemporaneamente si mette educatamente all’ombra di rimandi
dell’arte classica (greci e romani in
primis la facevano da padrone nell’arte del priapismo). Eppure c’è un
ulteriore rimando, sicuramente più sfumato ma che io trovo per certi aspetti
più interessante, agli Shunga, un particolare tipo di stampe Ukiyo di natura
erotica circolanti in Giappone durante l’epoca Edo (1600 circa). Queste stampe,
all’epoca considerate espressione popolare ma in seguito molto rivalutate da
critici e estimatori, hanno la caratteristica di rappresentare uomini e donne
dagli organi genitali spropositatamente grandi. Due anni fa a Milano ce ne fu
un’interessante mostra, in proposito. Sento queste espressioni artistiche più
vicine al discorso di Falcone perché mi piace notare come l’apprezzamento e
l’uso simbolico del fallo sia ancora oggi, in terra d’Oriente, oggetto di
manifestazioni locali. Ma soprattutto è interessante notare come l’esposizione
dell’organo genitale in suddette celebrazioni sia una cosa libera, normale e
festosa, ma contemporaneamente, quando essa assume il carattere erotico nei
film pornografici, esso viene inderogabilmente censurato e nascosto. C’è da
riflettere su questa ambivalenza e sull’uso che se ne fa: è quasi come se la
cultura giapponese volesse comunicare il lecito del fallo come simbolo e
l’illecito del fallo come semplice strumento fisiologico.
E’
nel rapportarsi a questi esempi che io ho visto – piacevolmente, a mio avviso –
l’assenza dell’erotismo in senso lato e avuto la possibilità di percepire al
suo posto l’oggetto “o-sceno”, vale a dire l’oggetto che sta oltre, che è
andato altrove, essendo denaturato dalla sua appendice umana e redatto in forma
pantagruelica e grottesca in un tempo; consacrato ad una natura e forma
apotropaica.
Non
è da sottovalutare, inoltre, l’ironia con la quale la mostra e i suoi singoli
pezzi sono stati creati. Personalmente, ho sempre riscontrato a prescindere un
che di comico nell’industria del porno e confesso che la realizzazione di
un’oggettistica così ricca e variegata della sua strumentazione mi ha sempre
regalato un paio di risate. Questo perché fondamentalmente è la prova di
quanto, sotto alcuni aspetti, l’essere umano sia ripiegato su se stesso, poiché
da tanta importanza
e tanto suo ingegno nell’inventare migliaia di modi differenti solo ed
unicamente per eiaculare. E’ su questa falsariga che si innestano i butt plug (e non azzardatevi a
confonderli con i dildos come ho
sentito fare durante la mia visita alla mostra: i pornomani spietati nella loro
kafkiana precisione ce ne insegnano la differenza fondamentale), ed è
soprattutto con loro che si coglie il passaggio che va dall’oggetto/strumento
erotico all’oggetto/manufatto artistico, il tutto avvenendo quasi solo
semplicemente tramite un ingrandimento di proporzioni (la cosa divertente è che
molti veri butt plug hanno
effettivamente forme fantasiose ed estremamente creative per cui riesce più o
meno divertente notare un certo rapporto di “chi copia chi”, quasi come se le
due tipologie di prodotti – strumento e opera d’arte – giochino ad imitarsi a
vicenda. E, in fondo, a prendersi in giro da soli).
C’è
poi, dietro tutto questo, l’aspetto che io considero più importante, e che
apprezzo di più. Infatti, dietro il gigantismo di ogni pezzo, dietro l’ironia,
dietro l’abilità e l’intento artistico, più di tutto brilla la dignità e la
certa superiorità che solo il lavoro artigianale riesce a comunicare.
Personalmente, sono uno di quelli che ha sempre ritenuto l’arte un qualcosa
fatto di mani sporche, di sudore e frustranti tentativi. Di lavorio continuo,
minimo, lento e stancante. Qualcosa che reclama schiene curve e muscoli
doloranti. Qualcosa, insomma, che faccia vivere la materialità corposa del
prodotto artistico. E in queste opere lo si vede tutto: è proprio lì,
nell’argilla, testimoniato dalla piccola elegante imperfezione, dal segno dello
smalto colato mentre si asciugava, dalla scheggiatura invisibile e seminascosta,
dalle forme orgogliosamente non calibrate poiché per loro fortuna non
appartengono all’insopportabilmente noioso processo di perfezione industriale.
Un
ultimo modesto consiglio: si eviti di visitare una mostra del genere con il
riflusso di troppi intellettualismi in testa. Le conoscenze artistico-critiche
devono stare in mente solo in veste di necessario postulato che spieghi a
sufficienza l’origine antica nonché il senso recondito di un’esposizione del
genere. Basti quindi giusto sapere che il lavoro di Raffaele Falcone è
provocatorio nella sua originalità, ma anche ripresa e perpetuità di una
tradizione antropologica e artistica ben nota e riconosciuta. Eccessive
speculazioni e/o elucubrazioni semantiche che tanto danno da mangiare ai
critici (e i mercanti) d’arte contemporanea rischiano di ferire nel vivo
l’impatto primevo e raggiante che questi manufatti hanno. I sofisticati sofismi
di dotti che spalmano parole su parole (forse proprio perché un po’ spaesati di
fronte a opere del genere), ricercando fino all’ultimo la sublimazione di
concetti e filosofumi vari, lasciano molto il tempo che trovano. Osservate
questa mostra con gli occhi e lo stomaco, e diffidate di chi ha troppo da dire
sulla natura del fallo: probabilmente non ha capito un cazzo.
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