Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

mercoledì 6 novembre 2013

Un bel silenzio non fu mai scritto









Alla fine ho dovuto constatarlo e arrendermi all’evidente: la cultura fa tendenza. E come tutte le mode, tende a diventare una direzione ottusa e obbligata, anche quando si presenta “ostinata e contraria” – sublime paradosso dell’imbottigliamento convenzionale di una frivolezza mascherata da ribellione. Tendenza, appunto.

Il punto è che gli ierofanti della “cultura” – termine che mi sta sempre più spesso venendo a nausea – nel loro vaneggiare vano e vanesio procurano più danni di due ore di televisione o di un quarto d’ora di social network. Il tutto perché risultano sempre più spesso forieri di quell’erudizione sterile che è a sua volta terreno fertile di ignoranza. In una statistica media quotidiana, nove delle dieci persone che intorno a noi cianciano di cultura dovrebbero stare zitte. Dovrebbero azzittirsi i citazionisti, i tuttologi, gli esperti, i professionisti, quelli che “si interessano”, che “sono appassionati”, quelli che hanno studiato. Dovrebbero azzittirsi perché tra loro c’è inevitabilmente chi ha passato tutta una vita a leggere senza mai osservare il cielo, così come c’è chi ha passato la vita a osservare il cielo senza mai leggere; c’è chi si laurea e in base a questo esclusivo motivo si ritiene in grado di saper parlare, scrivere o esprimere un pensiero (e, a volte, addirittura di pensare); c’è chi fa critica letteraria – la vendetta di chi non è in grado di narrare – senza prima essere critico di se stesso, oppure quelle stucchevoli persone che con la cultura si inebriano parnassianamente e sentono la loro anima elevarsi; e infine gli ignoranti per eccellenza, vale a dire quelli che quando guardano un’opera d’arte ne cercano spietatamente il significato didascalico, come se un quadro o una statua stessero lì in attesa di essere tradotti dai vari autoctoni monoglotti che li frequentano.

No, mi spiace, ma la cultura non è questo. Innanzitutto, la cultura non è un fatto istituzionale, dunque non si può apprenderlo dallo Stato in nessuna forma, ma la si riceve unicamente da se stessi. Se poi si è disposti a recepirla, questa è una cosa che dipende dalle nostre corde (dal latino cor, cordis, “cuore”) più intime, involontarie e incoscienti: a quanto pare, la parabola del talento nasconde un fondo di verità.

E d’altro canto non si possono usare i libri come appigli a cui reggersi brancolando nel buio. Il libro è una rivoluzione tutta interna, sanguigna, uno scoprire e ritrovare se stessi nelle parole di un tizio lontano nel tempo e nello spazio: è per questo che in realtà non siamo noi a leggere i libri, ma sono i libri che leggono noi.

La cultura andatela a frequentare nei musei e nei teatri, che sono (a dimostrazione di quanto detto prima) organi di Stato, ma una volta lì dentro ribellatevi a questa dittatura informativa e stazionate ore davanti a un’opera d’arte, senza per forza dover ritrovare quello che i manuali vi indicano ci sia. Guardatela, parlateci, sentitela. Imparate a chiedervi il perché senza volere veramente una risposta, come fanno i bambini. Immaginate l’artista che l’ha realizzata e domandatevi cosa avrà mangiato il giorno in cui l’ha iniziata o se è sceso a fare una passeggiato quando l’ha completata; sentitevelo amico, quell’artista, perché era carne e ossa, e l’opera d’arte che avete davanti l’ha fatta per voi.

Siate infantili con la cultura: imparate a sognarla, vivetela come un modo per colorarvi, per darvi un senso. Che sia il vostro castello immaginario nel quale ritrovare le vostre personali voci di dentro. Imparate, soprattutto, a imparare. Tutti sono capaci di dire e professare, ma pochi sono in grado di apprendere: questi pochi si chiamano saggi, e sono (a volte) le uniche persone veramente felici di questa terra.

La cultura è un gioco intimo, del tutto privato e silente, anche se questo non vuol dire essere soli.

Cultura è scambiarsi un libro all’interno di una biblioteca, immersi in un impenetrabile, religioso silenzio. Non perché non ci sia nulla da dire ma perché c’è tanto da ascoltare.

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