Alla fine ho
dovuto constatarlo e arrendermi all’evidente: la cultura fa tendenza. E come
tutte le mode, tende a diventare una direzione ottusa e obbligata, anche quando
si presenta “ostinata e contraria” – sublime paradosso dell’imbottigliamento
convenzionale di una frivolezza mascherata da ribellione. Tendenza, appunto.
Il punto è che
gli ierofanti della “cultura” – termine che mi sta sempre più spesso venendo a
nausea – nel loro vaneggiare vano e vanesio procurano più danni di due ore di
televisione o di un quarto d’ora di social
network. Il tutto perché risultano sempre più spesso forieri di
quell’erudizione sterile che è a sua volta terreno fertile di ignoranza. In una
statistica media quotidiana, nove delle dieci persone che intorno a noi
cianciano di cultura dovrebbero stare zitte. Dovrebbero azzittirsi i
citazionisti, i tuttologi, gli esperti, i professionisti, quelli che “si
interessano”, che “sono appassionati”, quelli che hanno studiato. Dovrebbero
azzittirsi perché tra loro c’è inevitabilmente chi ha passato tutta una vita a
leggere senza mai osservare il cielo, così come c’è chi ha passato la vita a
osservare il cielo senza mai leggere; c’è chi si laurea e in base a questo
esclusivo motivo si ritiene in grado di saper parlare, scrivere o esprimere un
pensiero (e, a volte, addirittura di pensare); c’è chi fa critica letteraria –
la vendetta di chi non è in grado di narrare – senza prima essere critico di se
stesso, oppure quelle stucchevoli persone che con la cultura si inebriano
parnassianamente e sentono la loro anima elevarsi; e infine gli ignoranti per
eccellenza, vale a dire quelli che quando guardano un’opera d’arte ne cercano
spietatamente il significato didascalico, come se un quadro o una statua
stessero lì in attesa di essere tradotti dai vari autoctoni monoglotti che li
frequentano.
No, mi spiace,
ma la cultura non è questo. Innanzitutto, la cultura non è un fatto
istituzionale, dunque non si può apprenderlo dallo Stato in nessuna forma, ma
la si riceve unicamente da se stessi. Se poi si è disposti a recepirla, questa
è una cosa che dipende dalle nostre corde (dal latino cor, cordis, “cuore”) più
intime, involontarie e incoscienti: a quanto pare, la parabola del talento
nasconde un fondo di verità.
E d’altro canto non si possono
usare i libri come appigli a cui reggersi brancolando nel buio. Il libro è una
rivoluzione tutta interna, sanguigna, uno scoprire e ritrovare se stessi nelle
parole di un tizio lontano nel tempo e nello spazio: è per questo che in realtà
non siamo noi a leggere i libri, ma sono i libri che leggono noi.
La cultura
andatela a frequentare nei musei e nei teatri, che sono (a dimostrazione di
quanto detto prima) organi di Stato, ma una volta lì dentro ribellatevi a
questa dittatura informativa e stazionate ore davanti a un’opera d’arte, senza
per forza dover ritrovare quello che i manuali vi indicano ci sia. Guardatela,
parlateci, sentitela. Imparate a chiedervi il perché senza volere veramente una
risposta, come fanno i bambini. Immaginate l’artista che l’ha realizzata e
domandatevi cosa avrà mangiato il giorno in cui l’ha iniziata o se è sceso a
fare una passeggiato quando l’ha completata; sentitevelo amico, quell’artista,
perché era carne e ossa, e l’opera d’arte che avete davanti l’ha fatta per voi.
Siate
infantili con la cultura: imparate a sognarla, vivetela come un modo per
colorarvi, per darvi un senso. Che sia il vostro castello immaginario nel quale
ritrovare le vostre personali voci di dentro. Imparate, soprattutto, a
imparare. Tutti sono capaci di dire e professare, ma pochi sono in grado di
apprendere: questi pochi si chiamano saggi, e sono (a volte) le uniche persone
veramente felici di questa terra.
La cultura è
un gioco intimo, del tutto privato e silente, anche se questo non vuol dire
essere soli.
Cultura è
scambiarsi un libro all’interno di una biblioteca, immersi in un impenetrabile,
religioso silenzio. Non perché non ci sia nulla da dire ma perché c’è tanto da
ascoltare.
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