Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

domenica 24 agosto 2014

Nel nome del padre

Dan Fante, figlio di John, scrittore come il padre. Bravissimo poeta.
Io sto lì con la mia copia di “The brotherhood of the grape” già autografata da Capossela (che ne ha scritto l’introduzione) e mi domando come potrebbe prenderla se gli chiedessi di autografarmi il libro del padre. Gli darà fastidio? Farà finta di nulla?
Non lo so, non riesco proprio a immaginare. Ma alla fine, manco c’ho voglia di immaginarlo. Sono seduto sul binario arrugginito di una stazione in disuso, circondato dall’educato brusio di una folla che con il suo viavai sembra proprio farla rivivere, quella stazione. Solo che stavolta non è l’affanno di orari da rispettare o di una meta da raggiungere (una donna da rivedere? Un lavoro da cercare? Un sogno da rincorrere?) che guida i presenti, ma il placido dinamismo di una serata tra amici riunitisi nel bar che frequentavano un tempo e che ora appare dimenticato ai più. Sconosciuto a quelli che non bevono vino ma cocktails. Che giocano al videopoker e non alla briscola. Che hanno tutta una vita davanti ma non il tempo di consumarla.
Perso in questo Lete benigno, oblio dell’attualità, mi faccio prestare da John Fante stesso il volto spavaldo e spaccone di uno dei suoi personaggi e vado incontro a Dan. Sono sicuro che da qualche parte tra quelle pagine che ho in mano, John mi ha sorriso.
“Mr. Fante?”
“Yes?”
“Can I ask a question?”
“Sure”
“I’ll be honored if you can sign me your father’s book. I know it’s quite embarrassing, but having a Fante’s signature on it means so much for me, so I thought…”
E lì lui con aria bonacciona e cordiale senza neanche farmi finire mi allunga una manona e un nuovo “sure” così piacevole che ti ci puoi accomodare sopra. Nel mentre scrive una delle dediche più semplici e più belle che abbia mai letto (che adesso si fronteggia con quella di Vinicio, quasi fossero due guasconi pronti a scazzottarsi su un ring fatto di parole) parliamo un po’ del lavoro di suo padre e quanto qui da noi è ancora amato non perché italo-americano, ma perché grande scrittore. Il mio grande scrittore. Quello che mi ha spalancato gli Anderson, i Faulkner, gli Steinbeck e poi Roth, Wolfe e Franzen. E tutti quelli che scoprirò nel resto della mia vita e che per adesso ignoro ancora.
Poi viene qualcuno dello staff a salvarlo dalle chiacchiere sognanti nelle quali l’ho invischiato e ci salutiamo con un’ultima stretta di mano. Lo vedo scomparire nel retro del palco sul quale da lì a poco salirà per recitare le sue poesie. E quando succede, è tutto un fluire di parole che fanno l’amore con le corde di una chitarra pizzicata e poi sfumano lungo le linee parallele di due binari che si perdono nell’oscurità, lanciati in un viaggio fino al termine della notte.
Chissà se Nicola Fante, a sua volta padre di John, l’ha mai percorsa questa tratta. Chissà se ha lanciato mozziconi puzzolenti di sigaro tra queste rotaie mentre alle luci dell’alba andava a spaccarsi la schiena in cantieri lontani.
E allora capisco che questi binari arrugginiti senza inizio e senza fine sono tutto il tempo del mondo. Le varie generazioni sono i vagoni che li percorrono e il treno è il libro che le racconta.



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