Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

giovedì 13 novembre 2014

La "città celeste" nel teatro di Eduardo






Eduardo, genio del teatro napoletano, dove l’aggettivo non indica la lingua, ma la capacità (al giorno d’oggi abbastanza persa) che ha questo dialetto/modo di essere di trascendere dalla geografia, spostandosi dai confini angusti di una città sino a diventare comunicazione universale, sino a diventare – appunto – teatro. Come una sorta di grammelot la napoletanità di Eduardo si indossa come un vestito, e del vestito stesso ne assume la natura. Perché del resto, cosa fa un vestito? Ricopre, racchiude, conserva. E questa sensazione di calore soffuso non è forse quella che avvertiamo guardando una delle sue commedie? Gli interni napoletani con i loro mobili in stile - legnosi, smussati, ricurvi, caldi -, con la scena che è quasi sempre una stanza, la cui quinta è squarciata da porte che immettono in altre stanze hanno in realtà poco a che vedere con il teatro borghese di Ibsen e vagamente strizzano l’occhio a quello di Pirandello (il quale, come Eduardo, è già lontano dalla “quarta parete”). Il suo è un teatro amniotico, avvolgente, termico, nel quale Napoli non è altro che il ventre gravido che conserva in sé l’umanità tutta, con i suoi drammi esistenziali declinati nei drammi piccoli e quotidiani. Il senso grandioso e tragico dell’esistenza (la “nuttata” che deve passare) che fende e attraversa il nucleo principale della vita sotto forma di società – ovvero la famiglia –, che da Eschilo a Shakespeare e giungendo al già citato Pirandello è motore e forza generatrice di liti, passioni e forza (si pensi – per comodità – alla delicata situazione della famiglia Cupiello), sino ad arrivare a quell’intoppo tutto privato e personale, quello con cui abbiamo a che fare la mattina allacciandoci le scarpe, preparandoci il caffè o allestendo un presepe in vista del Natale.
Eduardo (uno dei pochi italiani a condividere con Dante l’onore sommo di essere identificato principalmente con il nome) è dunque un napoletano che con Napoli in realtà ha poco a che fare, perché la sua Napoli non è circoscritta da un vulcano e un golfo. La sua Napoli – seppur forgiata dal cuore più vivo di usi e modi di essere puramente partenopei – è sognata e immaginaria (“Napoli milionaria!”), imparentata con l’isola imprecisata del Prospero shakesperiano e che diventa centro nevralgico dell’esistenza. Non è un caso che una delle ultime opere dell’autore sia stato proprio la traduzione e adattamento de “La tempesta” in napoletano – lavoro coevo a quel famoso “iatevenne” che De Filippo rivolse ai giovani napoletani (che vivevano a Napoli), un’esortazione rassegnata e drastica da parte di chi aveva già iniziato a intuire il cambiamento di un’era, il suo degrado civile e morale, la sua pochezza esistenziale.
Eduardo è stato dunque per il teatro napoletano ciò che Euripide è stato per Atene, ciò che Calderòn de la Barca è stato per Madrid e, ovviamente, ciò che Shakespeare è stato per Londra. Vale a dire mere e ormai inutili classificazioni geografiche. Sbagliano – persino se sono i suoi stessi parenti a dirlo – che il linguaggio napoletano che lui usa sia la testimonianza di un popolo e una cultura, perché a un certo punto quello non diventa altro che linguaggio teatrale, comunicante nella sua incomunicabilità, e infatti molto simile per certi aspetti al teatro mancato di Carmelo Bene (il quale non a caso stimava De Filippo sopra tutti). Non si spiegherebbe altrimenti, del resto, come mai il suo dialetto così antico e profondo, che ormai non ha nulla a che vedere con quello attuale imbastardito dal pessimo gusto macchiettistico (reale, non teatrale), riesca a raggiungere ed essere riconosciuto non solo nelle regioni più vicine alle Alpi, ma addirittura travalicando le stesse. Questo è il grande valore del teatro: la sua universalità data attraverso la particolarità. Perché oggi andiamo a vedere un’opera scritta 2500 anni fa che ci parla dell’istituzione di un tribunale penale per i delitti tra consanguinei (“Le Eumenidi” di Eschilo)? Perché quell’opera, della quale tra l’altro abbiamo perso la natura primeva dato che la lingua in cui è stata scritta non esiste più, ha smesso di essere il patrimonio personale e privato di una civiltà e di un tempo, ma è diventato – letteralmente – patrimonio dell’umanità. Ed è per questo motivo che Luca Cupiello non è più un personaggio incastrato tra un presepe da finire e una famiglia che si sfalda, ma quel Luca Cupiello siamo noi – e, ben più importante, saremo noi ancora fra mille anni – eternamente incastrati tra ciò che vorremmo sia e ciò che in realtà è.

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