Eduardo, genio del teatro napoletano, dove l’aggettivo non
indica la lingua, ma la capacità (al giorno d’oggi abbastanza persa) che ha
questo dialetto/modo di essere di trascendere dalla geografia, spostandosi dai
confini angusti di una città sino a diventare comunicazione universale, sino a
diventare – appunto – teatro. Come una sorta di grammelot la napoletanità di Eduardo si indossa come un vestito, e
del vestito stesso ne assume la natura. Perché del resto, cosa fa un vestito?
Ricopre, racchiude, conserva. E questa sensazione di calore soffuso non è forse
quella che avvertiamo guardando una delle sue commedie? Gli interni napoletani
con i loro mobili in stile - legnosi, smussati, ricurvi, caldi -, con la scena
che è quasi sempre una stanza, la cui quinta è squarciata da porte che
immettono in altre stanze hanno in realtà poco a che vedere con il teatro
borghese di Ibsen e vagamente strizzano l’occhio a quello di Pirandello (il
quale, come Eduardo, è già lontano dalla “quarta parete”). Il suo è un teatro amniotico,
avvolgente, termico, nel quale Napoli non è altro che il ventre gravido che
conserva in sé l’umanità tutta, con i suoi drammi esistenziali declinati nei
drammi piccoli e quotidiani. Il senso grandioso e tragico dell’esistenza (la
“nuttata” che deve passare) che fende e attraversa il nucleo principale della
vita sotto forma di società – ovvero la famiglia –, che da Eschilo a
Shakespeare e giungendo al già citato Pirandello è motore e forza generatrice
di liti, passioni e forza (si pensi – per comodità – alla delicata situazione
della famiglia Cupiello), sino ad arrivare a quell’intoppo tutto privato e
personale, quello con cui abbiamo a che fare la mattina allacciandoci le
scarpe, preparandoci il caffè o allestendo un presepe in vista del Natale.
Eduardo (uno dei pochi italiani a condividere con Dante
l’onore sommo di essere identificato principalmente con il nome) è dunque un
napoletano che con Napoli in realtà ha poco a che fare, perché la sua Napoli
non è circoscritta da un vulcano e un golfo. La sua Napoli – seppur forgiata
dal cuore più vivo di usi e modi di essere puramente partenopei – è sognata e immaginaria
(“Napoli milionaria!”), imparentata con l’isola imprecisata del Prospero
shakesperiano e che diventa centro nevralgico dell’esistenza. Non è un caso che
una delle ultime opere dell’autore sia stato proprio la traduzione e
adattamento de “La tempesta” in napoletano – lavoro coevo a quel famoso
“iatevenne” che De Filippo rivolse ai giovani napoletani (che vivevano a
Napoli), un’esortazione rassegnata e drastica da parte di chi aveva già
iniziato a intuire il cambiamento di un’era, il suo degrado civile e morale, la
sua pochezza esistenziale.
Eduardo è stato dunque per il teatro napoletano ciò che
Euripide è stato per Atene, ciò che Calderòn de la Barca è stato per Madrid e,
ovviamente, ciò che Shakespeare è stato per Londra. Vale a dire mere e ormai
inutili classificazioni geografiche. Sbagliano – persino se sono i suoi stessi parenti
a dirlo – che il linguaggio napoletano che lui usa sia la testimonianza di un
popolo e una cultura, perché a un certo punto quello non diventa altro che
linguaggio teatrale, comunicante nella sua incomunicabilità, e infatti molto
simile per certi aspetti al teatro mancato di Carmelo Bene (il quale non a caso
stimava De Filippo sopra tutti). Non si spiegherebbe altrimenti, del resto,
come mai il suo dialetto così antico e profondo, che ormai non ha nulla a che
vedere con quello attuale imbastardito dal pessimo gusto macchiettistico
(reale, non teatrale), riesca a raggiungere ed essere riconosciuto non solo
nelle regioni più vicine alle Alpi, ma addirittura travalicando le stesse. Questo
è il grande valore del teatro: la sua universalità data attraverso la
particolarità. Perché oggi andiamo a vedere un’opera scritta 2500 anni fa che
ci parla dell’istituzione di un tribunale penale per i delitti tra consanguinei
(“Le Eumenidi” di Eschilo)? Perché quell’opera, della quale tra l’altro abbiamo
perso la natura primeva dato che la lingua in cui è stata scritta non esiste più,
ha smesso di essere il patrimonio personale e privato di una civiltà e di un
tempo, ma è diventato – letteralmente – patrimonio dell’umanità. Ed è per
questo motivo che Luca Cupiello non è più un personaggio incastrato tra un
presepe da finire e una famiglia che si sfalda, ma quel Luca Cupiello siamo noi
– e, ben più importante, saremo noi ancora fra mille anni – eternamente
incastrati tra ciò che vorremmo sia e ciò che in realtà è.
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