Samuel Taylor Coleridge - THE RIME OF ANCIENT MARINER

giovedì 8 gennaio 2015

Canto (di post Natale) di uno scrittore errante dell'Italia - un sequel non cercato, è stato lui a cercare me




Quando ero un bimbo di pochi anni, mi meravigliavo sempre del fatto che Gesù vivesse così poco.
Da Natale a Pasqua in fondo passavano sempre pochi mesi; come faceva quel bambino che appena l’altro giorno festeggiavamo in fasce a diventare poco dopo un adulto ossuto inchiodato a una croce?
Poi crescendo capii come funzionavano le cose e il concetto di tempo si sostituì all’ingenuità bambina (e chissà quanto c’ho perso nel cambio). Però da adulto continuo a subire questa strana vicinanza di eventi; Natale e Pasqua, inizio e fine, vita e morte. “Life-in-Death”, come direbbe Coleridge. Neanche il tempo di farlo nascere, questo povero Cristo, e subito a piangerne la morte.
Perché questo è in fondo il destino di tante cose belle: spuntare dal nulla per poi sfiorire velocemente. Ultimamente mi è appunto capitato di scrivere qualcosa, in merito all’effimero battito d’ali della Bellezza. C’entrava la neve, ricordo.

E sempre di recente avevo scritto qualcosa in merito anche a questo Gesù Cristo che puntualmente e con santa pazienza ogni anno si affaccia sul pianeta per dare un’occhiata a questa nostra sciagurata razza umana. Solo che il mio Cristo non era fatto per stare nei presepi o nelle icone delle chiese. Io lo immaginavo come un nostro vagito interiore, piccolo e innocente. Puro, un rigurgito di amore e di giustizia che penso tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo provato. Questo era il mio Gesù. Un sospiro di umanità, una parola gentile sospesa prima che il mondo attorno ci costringa nuovamente a sputare rabbia e odio, condannandola – inevitabilmente – alla sua morte. Come vedete, da Natale a Pasqua, il passo è breve.

Però quest’anno il passo è stato ancora più breve del solito.
Quest’anno l’amore è stato ammazzato prima del tempo. Quel timido moto di giustizia e di fratellanza che avevo salutato nel racconto precedente me l’hanno crivellato di colpi. Trucidato a freddo, strappato con violenza dal mio foglio e lo hanno fatto accasciare sul suo stesso sangue sparso sul terreno. Dodici volte, me l’hanno ammazzato, il mio personaggio inventato. L’avevo partorito con cura, gli avevo dato senso e sostanza, l’ho nutrito con parole e virgole fino a renderlo tanto robusto da poter diventare uno dei protagonisti di quel racconto. E ora quel personaggio immaginario – quell’umanità che auspicavo per l’umanità intera – è gocciolato via dal calamaio.
Ora non mi resta che – come ad altri – una penna vuota e un foglio bianco. 





Ma l’inchiostro rimane più denso del sangue. 


DEDICATO A:

Stéphane Charbonnier
Jean Cabut
Georges Wolinski
Bernard Verlhac
Philippe Honoré
Moustapha Ourrad
Elsa Cayat
Bernard Maris
Michel Renaud
Frederic Boisseau
Ahmed Merabet
Franck Brinsolaro

Nessun commento:

Posta un commento