La tensione è forte in sala stampa. In attesa dell’arrivo di
Freeman ci viene comunicato che lui non vede l’ora di parlare con noi. Eroe
audace. Freeman è stato il protagonista di una trilogia che è stata campione d’incassi
al botteghino, interpreta con grande successo il dr. John Watson nella serie “Sherlock”
ed è infine entrato nel cast di “Civil War”, uno dei capitoli più attesi della
saga Marvel cinematografica: con queste credenziali qualsiasi giornalista al
mondo lo spolperebbe vivo (o meglio, qualsiasi giornalista serio, dato che il
tizio seduto accanto a me in sala conferenze scorreva Wikipedia col ditino sul
tablet per vedere che ruolo aveva in “Sherlock”. Sì, questa è una nota di polemica).
Arriva in sala e sin dai primi passi si capisce quanto sia “british”:
compunto, elegante ma sobrio, un accento sul quale ti ci puoi quasi sdraiare
sopra, e un umorismo delicato, sottinteso ma comunque in qualche modo pungente
(“hai fatto molti ruoli diversi” - gli si chiede – “senti che ti manca
qualcosa?”. “No”, risponde in maniera serissima ma chiaramente ironica).
Annuncia l’uscita di “Fun house”, film che sta girando adesso e che pare sia
una sorta di commedia dai toni grotteschi sulla vita in Afghanistan durante la
guerra, e scansa elegantemente (anche con risposte lunghe) domande sui rumors
che lo riguardano, come quella sul ruolo che avrà in “Civil War” (e che ha
rivelato – ma chissà se è vero – essere un personaggio minore appartenente al
governo americano), o un’altra su una sua possibile presenza in un progetto di
Spielberg (e che lui rigira direttamente al regista americano, suggerendogli di
scritturarlo). Chiestogli cosa ne pensa del cinema italiano, confessa di non
conoscerlo bene e in questo si conferma il british di cui sopra: purista,
corretto, manierato. Quasi una versione speculare del Mark Ruffalo che abbiamo
visto ieri.
Ho la fortuna di potergli rivolgere una domanda e gli chiedo
se ha trovato o provato difficoltà nell’interpretare un grosso personaggio
della letteratura quale è John Watson, ma lui risponde dicendomi che l’ottimo
lavoro degli sceneggiatori (Mark Gatiss e Steven Moffat) ha addirittura
migliorato ciò che Arthur Conan Doyle (creatore di Sherlock Holmes) aveva già
realizzato estremamente bene nella sua prosa, per cui sulla carta ne è uscito
un personaggio chiaro, preciso, senza sbavature e lui non ha dovuto fare altro
che attenersi al soggetto – per lui è molto importante leggere una
sceneggiatura ben scritta – e mettere in funzione la sua bravura attorica.
In chiusura gli si chiede conferma della notizia che poco
prima aveva rivelato alla giuria di giovani che ha incontrato, e cioè che il
nuovo episodio della serie sarebbe stato in parte ambientato a Venezia. Lui,
candido e sereno, dice “è una bugia. L’ho detta per dare una bella impressione
ai ragazzi del festival”. Ma è ovviamente un tono umoristico, questo. E non
tanto i ragazzi, quanto i giornalisti avrebbero dovuto sapere che anticipazioni
del genere su serie e film di successo non si danno neanche al Comicon di San
Diego, a meno che non siano gli autori stessi a volerle rivelare. Come tutti i
grandi attori, riesce a essere attore anche nella realtà: God save Martin
Freeman.
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