Ho sempre
pensato che il senso di essere uno studioso del passato - sia esso archeologo,
storiografo o finanche storico dell’arte e della letteratura -, si basi
essenzialmente su un solo principio: quello del sentire vivo ed attuale il tempo
che fu. E, preciso, ho volutamente usato “sentire” piuttosto che un verbo più
anonimo quale “considerare” proprio perché la natura recondita delle cose, in
particolare quelle riguardanti l’antico, cresce e si moltiplica solo nel
fertile campo dell’emotività. Bisogna avere passione e sentimento anche quando
si studiano i mattoni cerebrali degli esistenzialisti francesi, e bisogna riuscire
a commuoversi leggendo la dedica d’amore che un signore senza volto (e senza
tempo, a questo punto) ha scritto nel I sec. d.C. su una statua a Tebe, in
Egitto (un giorno, se i miei venticinque lettori avranno piacere, ne parlerò e
sfido chiunque a non intenerirsi su questa storia).
Personalmente,
il mio transfert del passato che
diventa presenta lo vivo con un’allegria un po’ pazza, mezza bambina e mezza
filosofa, come quella che Pietro Citati racconta nel piccolo ma stupendo
articolo (poi omonimo libro) “Il tè del Cappellaio Matto”. In buona sostanza,
Citati ci spiega di come la vita sia effettivamente una grande tavolata pronta
ad accogliere innumerevoli invitati. Ma niente abbuffate, per carità:
l’esistenza è molto più simile ad un inglesissimo tè delle cinque, con tanto di
tartine. Poi il genio inquieto di quel Lewis Carroll che scrisse Alice in wonderland realizzò il colpo di
classe precisando che quelle cinque sono cinque in eterno (per ordine della
Regina di Cuori, tra l’altro), per cui a questa tavola verranno sempre nuovi
commensali, ma il burro che si stenderà sul pane sarà sempre lo stesso, fresco
e invitante, e si assaggerà sempre la stessa marmellata, risultando buona e
saporita come al primo assaggio (perché, appunto, sarà sempre un primo assaggio).
Ecco, la vita
è suppergiù così. Tutti noi stiamo intorno ad un lungo tavolo: ci sediamo,
assaggiamo qualche biscotto, sorseggiamo un po’ di tè e poi, chi prima chi
dopo, ci alziamo e ce ne andiamo. Ma non c’è monotonia in questo, perché ogni
volta la tavola si apparecchia per un gruppo differente di persone e il modo in
cui essi consumano lo spuntino non sarà mai lo stesso di chi lo ha consumato
prima o di chi lo consumerà dopo, nonostante le pietanze siano sempre le
stesse. Che ci crediate o no, vi assicuro che è questo che facciamo da circa
100.000 anni a questa parte.
Non a caso
qualcuno infinitamente migliore di me già soleva ripetere eadem semper sunt omnia, vale a dire “tutte le cose sono sempre le
stesse”, per cui, oggi come oggi, se mi capita di vedere persone che si
prodigano per la città ma che sotto sotto ambiscono al potere (preferibilmente
quanto più monocratico possibile) sorrido e penso a Pericle – o, con le dovute
immani ed enormi differenze, a Napoleone o Mussolini, fate voi – così come ho
negli orecchi l’eco di Galilei e negli occhi la porpora cardinalizia quando
leggo di nuove scoperte genetiche. Con la guerra, generalmente, il discorso si
fa molto più semplice dato che non ho bisogno di scomodare nessuna battaglia
gloriosa: mi basta tenere in mente la scena, immaginata ma sicuramente vera,
della scimmia antropomorfa armata di osso che sopraffà un’altra che ne è priva
in “2001: Odissea nello spazio”. Che cos’è, del resto, il revisionismo storico
se non spalmare la marmellata al posto del burro sulla stessa tartina di
sempre?
E’ inoltre con
lo stesso sapore di stantio in bocca che ho appreso la notizia dei tagli alla
cultura di Monti, mascherati per lo più da aumento delle rette universitarie,
ma anche dalla completa soppressione di istituti scientifici e culturali
considerati “minori”. A Napoli, ad esempio, il dito è stato puntato contro la
Stazione Geologica Antonio Dohrn (gli interessati possono eventualmente firmare
una petizione su www.buonacausa.org). Ho letto tutto ciò avendo ancora in mente
il gusto amaro delle mortifere e putrescenti riforme della Gelmini e delle
sforbiciate di Bondi, brandelli di un periodo del quale dovremmo forse provare
più vergogna che per il ventennio fascista. Vedete quindi come i momenti
storici si accostino tra di loro, tendendo ad ammassarsi l’uno sull’altro: il
vero valore dello studiarli sta nella possibilità di riconoscerli e
smascherarli.
Ma come
dicevo, per apprezzare in pieno la fortuna e l’utilità di immergersi nel
passato, è importante farlo con la fantasia libera e folle dei bimbi dove tutto
ha un peso ma allo stesso tempo non ce l’ha. Un mondo dove si desidera alla
follia qualcosa e poi saperlo abbandonare un secondo dopo alla ricerca di
qualcos’altro. E’ il gioco infantile che spezza la rigidità delle ere facendole
collassare e spalmare come formaggio molle su di noi. La segreta arte di
immaginare tanti “quando” e tanti “dove” tutti nello stesso punto è un’abilità
che ha solo Alice (che si trova nel suo
Paese delle Meraviglie) e la possiede proprio in quanto bambina che per
professione ruzzola, capitombola e curiosa in giro fino ad arrivare laddove il
Tempo si perde e non ha senso, dove non a caso anche l’eterno dipendente dalle
lancette, il ritardatario Bianconiglio, va a fermarsi. Riscoprire in se stessi
questo tipo di fantasia ci schiude porte antiche rivelandocene le verità e i
segreti. Ci fa capire che con un tale bagaglio alle spalle, siamo molto di più
del semplice pubblico pagante che da anni chi di dovere sta cercando di farci
credere. Siamo attori e registi. Siamo burattinai e non marionette. Ed è nostro
compito cercare i ruoli che dobbiamo recitare e far recitare leggendo libri e
andando alla ricerca dei nostri antenati per poter ricercare noi stessi.
Studiare la
Storia, conoscere il passato, anche e soprattutto quello più antico, serve a
questo. Chi considera il passato un verbo temporale che ci lasciamo alle spalle
attraverso lo stillicidio dei secondi è una persona superflua al presente e
troppo anonima per poter immaginare un futuro.
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