Nel 1963
Hannah Arendt scrisse e pubblicò “La banalità del male”, un saggio che
conteneva i resoconti del processo al gerarca nazista Adolf Eichmann. Ma la
verità è che la prosa (e la poesia) ha sempre trovato un profondo fascino nel
male e, volendola mettere su un piano più tecnico (ma anche più semplicistico)
possiamo far risalire la nascita stessa della letteratura occidentale con un
atto di violenza clamoroso quale la guerra di Troia, raccontata nell’Iliade.
Autori e opere
che hanno fomentato questa attrattiva sono molteplici ma per farne un sunto,
sono sicuramente due i massimi esponenti del genere. Il primo (inteso anche in
senso cronologico) è Donatien Alphonse François de Sade (1749-1814), il
cosiddetto “divin marchese” al quale si deve il termine “sadismo”. Vissuto
durante gli anni turbolenti della Rivoluzione francese (nonché del periodo
napoleonico), egli rappresenta la figura classica del libertino, spregiudicato
ed eccessivo. L’eros è alla base dei suoi scritti ma esso si combina in maniera
strettissima con la violenza come se l’uno fosse un mezzo per giungere
all’altro, completandosi nell’obiettivo di un unico scopo che è quello del più
insano ed egoistico piacere personale. Ma la sua non è una violenza che si
limita a colpire le persone: è questo il senso profondo della retorica sadiana.
Essa si espande e si scaglia con ferocia contro la natura, contro la morale,
contro la religione, il creato e la vita tutta, come freddamente spiegato da un personaggio di una delle sue opere, “Le 120 giornate di
Sodoma”: “… se solo potessi, userei il sole per bruciare d’un colpo tutta
un’intera città…”. Parole che ci ricordano molto da vicino il sonetto di Cecco
Angiolieri “S’i fosse foco arderei ‘l mondo”, ma che soprattutto ci rendono
abbastanza chiaramente il senso di sovrumano odio verso tutto ciò che è
l’esistenza altrui, un bisogno che viene identificato come “sadico” proprio
perché ha un fine esclusivamente privato e soggettivo che mira al piacere dato
nel distruggere gli altri. In Sade c’è quindi una violenza meccanica, istintiva, che parte
da un ragionamento freddo e spietato per poi culminare nell’animalesco, nella
furia primitiva e irrazionale.
Diverso è il
caso del secondo autore in questione, Isidore Lucien Ducasse (1846-1870) noto
con lo pseudonimo di Lautréamont e autore de “I canti di Maldoror”. L’opera è
densa di una violenza feroce ma tuttavia mista a un forte senso del grottesco. La
sua è una crudeltà oscura, segreta, di quelle che si nascondono nelle tenebre e
si fondono con le paure e gli incubi irrazionali che in parte richiamano le
atmosfere cupe del romanzo gotico. Lo stile di Lautréamont è visionario,
febbricitante, eccentrico. I suoi racconti, sotto forma di deliranti monologhi,
scorrono come un fiume in piena e leggendoli quasi sembra di inciampare nel
balbettio confuso dello psicopatico che con gli occhi spalancati scorge scenari
immondi (in questo aspetto, è quasi un precursore di Lovecraft). La prosa è
giocata principalmente in virtù di un’adorazione del Male inteso soprattutto
come valore etico e religioso: Dio e la Natura tutta sono spesso le vittime dei
suoi attacchi, in un sorta di grande rivalsa dell’essere umano nei confronti
dell’Essere Supremo. Ma si badi bene: il tutto viene orchestrato in virtù di
speculazioni filosofiche che mirano a condannare la società e i suoi costumi
falsi moralisti. Quello dell’autore è dunque un grido di rifiuto che, negando
il mondo reale perché considerato ipocrita, crea un universo oscuro dove il
Male, incarnato in Satana in quanto opposto di Dio, domina concedendo agli
uomini la libertà suprema, vale a dire la possibilità di regredire a bestie,
rifiutando l’umanità e le regole etiche e sociali che la contraddistinguono.
Sono dunque,
quelli di Sade e Lautréamont, due tipi diversi di letteratura del male. La
prima, come abbiamo visto è tutta umana e patologica (non a caso, il sadismo –
sebbene sia un termine improprio rispetto alla filosofia presente nelle opere
di Sade – è tutt’oggi considerato una parafilia strettamente collegata con
l’impulso sessuale, ed è infatti presente nel Manuale Diagnostico e Statistico
dei Disturbi Mentali). La seconda investe il divino e tutto ciò che trascende
nell’uomo: è immaginifica, terribile, inquietante. Queste due grandi direttive
trovano poi le loro differenti declinazioni in tanti altri autori che hanno
trattato il tema, di cui i maggiori sono sicuramente Edgar Allan Poe, Charles Baudelaire
(suo grande estimatore) e gli altri due principali “poeti maledetti” Arthur Rimbaud
e Paul Verlaine, il succitato Howard P. Lovecraft, William Blake, Jules Michelet,
Jean Genet e Antonin Artaud. Come vedete, da sempre la letteratura è stata – e
continuerà a essere – il campo ideale per la crescita dei fiori del male,
preziosi gigli neri dell’inchiostro più (im)puro che la scrittura abbia mai
avuto.
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